Dal 1976 la Lake Superior state university, una piccola università del Michigan, stila una lista annuale delle “parole da mettere al bando perché usate male, troppo usate o inutili”. Sul sito dell’Independent, il giornalista e commentatore politico John Rentoul aggiorna regolarmente la sua Banned list, la lista degli stereotipi linguistici e dei neologismi che non sopporta. La settimana scorsa Ben ­Greenman, il responsabile dell’agenda culturale del New Yorker, ha chiesto ai lettori del settimanale di segnalare via Twitter una parola che vorrebbero eliminare dalla lingua inglese “per i motivi più vari: uso eccessivo, confusione etimologica, bruttezza”.

In poche ore ha ricevuto migliaia di proposte: “Se eliminassimo tutte le parole indicate dai nostri lettori, non ci sarebbero più parole”, ha osservato. “Quando la febbre del divieto attecchisce, può essere difficile contrastarla”, ha commentato lo scrittore ed editor irlandese Stan Carey sul suo blog. E il rischio è che degeneri in compiaciuta pedanteria. Lo sa bene l’Economist, che nella sua guida di stile distingue tra “luoghi comuni”, “parole orrende” e “parole del gergo giornalistico”. Ma prima di tutto invita a diffidare dei divieti.

Internazionale, numero 947, 4 maggio 2012

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