Andre Agassi, Open

Einaudi, 504 pagine, 20 euro

Quando nel 1990 il tennista Andre Agassi scese in campo per giocare la finale di Roland Garros contro Andrés Gómez portava un parrucchino. Lo rivela lui stesso in questa autobiografia, in cui confessa anche che qualche anno dopo, in un brutto momento, ha assunto amfetamine. Ma si tratta di rivelazioni che impallidiscono di fronte a un’altra verità: Agassi odiava il tennis. Se fosse stato per lui, non avrebbe giocato. Fu suo padre, che faceva il croupier a Las Vegas e arrotondava incordando racchette, a imporgli un allenamento quotidiano con una macchina sparapalle modificata perché fosse più potente, con una rete più alta di dieci centimetri rispetto a quella regolamentare, in un campo ricavato nel cortile di casa.

Andre era già un fenomeno a otto anni, e a 14 fu spedito in Florida alla Bollettieri Tennis Academy, una fabbrica di campioni infallibile e inospitale, dove cominciò a inventare stratagemmi (la chioma ossigenata, l’abbigliamento informale, l’atteggiamento ribelle) per riuscire a mettere qualcosa di sé in una vita che gli era stata imposta con violenta determinazione. Open è un libro che non parla tanto di tennis, quanto di padri e figli, di aspettative e ferite, di come riuscire a trovare la propria strada lungo quella che altri hanno scelto per noi, e che rivela, tra l’altro, che la soddisfazione della vittoria è poca cosa rispetto alla disperazione della sconfitta.

Internazionale, numero 898, 20 maggio 2011

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