William Langewiesche, Esecuzioni a distanza
Adelphi, 84 pagine, 7 euro
Nel corso del novecento la distanza tra chi in guerra spara e chi viene colpito è andata progressivamente aumentando, sia fisicamente per effetto dello sviluppo tecnologico (basti pensare ai bombardamenti aerei), sia emotivamente con il diffondersi di ideologie che rendono i nemici disumani e dunque remoti. Questa distanza – si tende a pensare – contribuisce all’aumento dei morti nei conflitti perché riesce ad attenuare il senso morale e più in generale l’umanità dei soldati.
Dalla lettura di questi due brevi reportage, tuttavia, si ricava l’impressione che le cose non sono così semplici. Nel primo si parla di un tiratore scelto impaziente di diventare un cecchino, della sua fatica per restare sano dopo aver ucciso la sua prima vittima, del suo lento abituarsi alla guerra.
Nel secondo si osserva da vicino il lavoro dei tecnici che dalle basi statunitensi telecomandano i droni lanciati a colpire obiettivi in Medio Oriente: operatori che, dopo qualche mese di lavoro assurdo, sorta di routine impiegatizia in cui si trovano a uccidere sulla base di piani decisi da altri svolgendo una pura funzione di manovalanza, di solito decidono di smettere. Con una certa partecipazione, Langewiesche scrive che “in teoria sono lontani dalla battaglia, ma in pratica non tanto”, e che per i civili “il problema non sono i droni. È la guerra, o le guerre. Il sistema americano, forse”.
Internazionale, numero 928, 16 dicembre 2011
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