Vittorio Giacopini, Non ho bisogno di stare tranquillo.
Elèuthera, 173 pagine, 14 euro
È possibile scrivere una biografia con passione senza fare il ritratto di un santo? Forse. Di certo con Errico Malatesta, maggiore riferimento dell’anarchismo tra otto e novecento, la cosa è insieme difficile e indispensabile. Difficile perché, come scrive Giacopini nella sua postfazione, gli anarchici tendono a essere retorici; indispensabile perché gli “apostoli” dell’anarchia sono un controsenso. Bisogna allora insistere sulla vita materiale del personaggio, su certe sue contraddizioni, sulla sua voglia di cominciare a cambiare le cose senza un piano, sul suo modo di prendere gli insuccessi senza tragedie, di avviare la rivoluzione senza solennità.
Come disse in un suo discorso: “I fucili e le scuri ve li avimo dato, i cortelli li avite. Se volete facite, se no vi fottite”. Così l’autore, prendendosi qualche libertà rispetto ai fatti, rivela la vita di un vero anti-italiano, un internazionalista cosmopolita, abituato a spostarsi e a vivere con poco, a proprio agio a New York, Ancona e Buenos Aires, che contemplava il tirannicidio e la non violenza, che si divertiva a concionare e a fare l’elettricista, che di certo aveva capito dove stava andando l’Unione Sovietica e probabilmente anche il resto del mondo. Sullo sfondo, in contrasto, Roma si espandeva veloce verso nord e l’Italia, finite le speranze della liberazione, cominciava ad abituarsi al peggio.
Internazionale, numero 939, 9 marzo 2012
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