Emanuele Coccia, Il bene nelle cose

Il Mulino, 140 pagine, 12 euro

I muri delle città in cui abitiamo sono pieni di immagini di oggetti, di cose messe lì a stimolare il nostro desiderio. Si dice che le nuove pubblicità si vadano smaterializzando e facciano sognare mondi diversi, stili di vita o performance, ma è sempre attraverso una bottiglia di profumo, un divano o una scarpa che a quei mondi ci è consentito di accedere.

Di fronte a questa onnipresenza spesso gli intellettuali hanno fatto appello a concetti come l’esteriorità o l’inganno, riproponendo in modi aggiornati le antiche polemiche contro l’idolatria. Emanuele Coccia tenta un’altra strada, e prova con decisione a prendere le cose sul serio. Costruisce una visione che programmaticamente non costringa gli oggetti che compriamo e vendiamo, che tanto peso hanno nelle nostre vite, al ruolo di specchietto per le allodole.

Arriva così ad avanzare l’ipotesi che nel nostro mondo il valore delle merci non sia fissato solo dalle leggi dell’economia, ma anche e soprattutto da quelle della morale, secondo un processo complesso non monopolizzato da pochi illusionisti e che varrebbe la pena di studiare. Questo filosofo, che già nella Vita sensibile (Il Mulino) aveva proposto modi sorprendenti di osservare ciò che ci è più vicino, torna a ragionare su cosa sta cambiando o, sembra dire, su ciò che è già cambiato mentre non ce ne accorgevamo, distratti a fare della merce un feticcio di qualcos’altro.

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