Didier Fassin, Punir. Une passion contemporaine
Seuil, 200 pagine, 17 euro

In Francia si continua a scrivere molto di carcere. Dopo la grande inchiesta di Farhad Khosrokhavar esce questo piccolo saggio teorico di Didier Fassin. Ad alcuni anni di distanza dalle sue poderose analisi etnografiche su una brigata anticrimine (La forza dell’ordine, La linea 2014) e su un istituto penale (L’ombre du monde. Une anthropologie de la condition carcérale, Seuil 2011), questo antropologo che insegna tra Parigi e Princeton tira le fila e prova a capire quali sono i fondamenti del punire.

Secondo Fassin la punizione è diventata “un’ossessione contemporanea”. Lo mostra il moltiplicarsi del numero dei delitti previsti, degli arresti e degli anni di prigione. Questa ossessione per la punizione non porta ad alcun risultato: gli autori di delitti sottoposti a pene carcerarie tendono infatti ad allontanarsi dalla società e a diventare recidivi. La punizione inoltre non segue alcuna logica di equità, ma varia a seconda del reo mitigandosi quando coinvolge strati sociali elevati e accanendosi su chi è già escluso. Punire accresce così le disuguaglianze e non è più quell’ inflizione di un dolore proporzionato al crimine previsto dalla teoria. In queste condizioni Fassin finisce per chiedersi se invece dei delitti evocati dalla logica securitaria, non siano piuttosto i castighi a minacciare la società in cui viviamo.

Questa rubrica è stata pubblicata il 27 gennaio 2017 a pagina 82 di Internazionale, con il titolo “Delitti e castighi”. Compra questo numero| Abbonati

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