Guido Crainz, Autobiografia di una repubblica
Donzelli, 226 pagine, 16,50 euro
Ci voleva uno storico animoso e animato da un santo sdegno civile – anche se le sue argomentazioni sono serissime e il non gratificante “approfondimento della materia” è ineccepibile – per osare una spiegazione sintetica, ma senza saltare nessun passaggio economico-politico-culturale essenziale, di come sia stato possibile per il Belpaese cadere così in basso.
Industrie e finanza, istituzioni, cultura, scuola e morale pubblica… Ben poco sembra salvarsi in questo disastro e i motivi di speranza non sono mai stati così scarsi, soprattutto dopo la scomparsa per suicidio – perché così simile, così vile e così cedevole “dentro” – della sinistra. La classe dirigente è “uscita dalla legalità” assai presto (fu Galli della Loggia a dirlo) e il popolo, intontito dai miti e dalla realtà del consumo, dal chiacchiericcio dei mezzi di comunicazione e dall’invadenza della pubblicità (in senso lato: il fascismo del nostro tempo, disse profeticamente in gioventù un vecchio regista) ne ha seguito pedissequamente lo schifo.
La carrellata si fa di decennio in decennio più angosciosa, man mano che Crainz mette in luce i mali di base e quelli contingenti, aggiuntivi. Ma la lettura di questo libro può e deve servire, oltre che a capire meglio chi siamo e dove siamo voluti finire, a farci pensare, a dare, anche se a pochi, la rabbia e l’energia per ripartire. Su tempi lunghi, lunghi.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it