Marco Franzoso, Il bambino indaco

Einaudi, 132 pagine, 16 euro

L’autore esordì qualche anno fa con un romanzo scritto in dialetto, quadro della gioventù del nordest, e ricompare oggi con un romanzo che ha poco di sperimentale ma che è uno dei più angoscianti che si siano letti da tempo. Una giovane coppia tra Padova, Treviso e Venezia, è apparentemente felice e normale. Ma lei è una seguace della new age del tipo più spinto, ossessionata dalla purezza del cibo e dell’ambiente. Con la nascita del figlio che una specie di santona postmoderna decreta essere del tipo indaco, destinato a salvare il nostro secolo, la donna sposta sulla creatura le sue convinzioni, nutrendola in modo assurdo e mettendone in pericolo la crescita e l’esistenza.

Il racconto è a posteriori, dopo che la madre del protagonista ha ucciso la nuora, davanti all’incapacità del figlio di staccarsene e alla paura per la vita del nipote. Non un noir dunque né un romanzo a tesi, ma una sorta di referto dall’interno di un male del tempo, che suona, anche se l’autore non lo teorizza, come un distacco secco dalle velleità e fantasie del trentennio passato. Ma il distacco non arriva dall’interno della generazione che vi è cresciuta. È opera invece di una donna di ieri, cresciuta in un contesto di tradizione. Asciutto e veloce, denso e teso, il romanzo è dei pochi che non predicano ma narrano, e narrano una privata malattia, spia di un’altra, più vasta, che ha tutto travolto.

Internazionale, numero 937, 24 febbraio 2012

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