John Cheever, I racconti
Feltrinelli, 828 pagine, 40 euro
È il libro ideale per le vacanze. Cheever (1912-1982) è da tempo un classico, maestro di tanti tra cui Carver e Ozick, paragonato nell’arte del racconto agli Anderson e agli Hemingway del tempo lontano, e se i suoi romanzi hanno ambienti e temi da racconto, tanti racconti avrebbero potuto essere romanzi. Dopo le incursioni di Garzanti quando Cheever era vivo (con scarso esito tra i nostri lettori) e le riprese di Fandango, passa alla Feltrinelli che meritoriamente sistema i racconti in un unico grande volume, una sorta di splendido meridiano non accademico.
Cheever ha raccontato l’America borghese e suburbana della guerra fredda e di dopo, autodistruttiva ma distruttiva, piena di Caini e di Abeli, di Edipi e di Giocaste quotidiani, insoddisfatti, sofferenti, crudeli, vedendone da dentro l’irrefrenabile nevrosi, da ricco e alcolizzato, da bisessuale e puritano, da realista e visionario, ma sempre attento al dolore e al suo racconto, all’assurdo di una condizione sociale e alla solitudine della condizione umana.
Non pochi i racconti ambientati tra gli americani di Roma, ma i più inquietanti sono quelli che sfociano senza sforzo nel fantastico, la radio che capta le conversazioni di tutto un condominio, il nuotatore che passa per scommessa di piscina in piscina, le riunioni di famiglia che finiscono in esplosioni di furia.
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