Teju Cole, Città aperta

Einaudi, 270 pagine, 17,50 euro

Raramente un esordio ci è sembrato più benvenuto di questo, di un nigeriano di madre tedesca, giovane intellettuale newyorchese che scrive con precisione analitica facendosi oggetto di romanzo e di saggio e rendendo la sua storia esemplare del nostro tempo.

La New York di Cole è fitta di incontri tra etnie e storie, come la Bruxelles in cui cerca inutilmente le tracce di una nonna materna che ha sofferto, anche lei, la storia con la maiuscola. Julius, il narratore, di mestiere psichiatra, ragiona e si ragiona, interroga e s’interroga, vede e ascolta (e sono illuminanti i suoi gusti in fatto di pittura, di musica). I problemi del tempo gli si affacciano immediati e pressanti, come dovrebbe essere per noi tutti, con la difficoltà di giudicare, e di sfuggire al pregiudizio.

Questi problemi deve pur viverli, come tutti, sulla propria pelle, e sperimentarne le difficoltà confrontandosi con quelle degli altri, africani, bianchi, orientali, o meticci come lui. Nel giro di un anno, tra curiosità e ansie, tra coscienza di sé e, talora, vergogna di sé, si afferma in Julius/Teju il bisogno di vivere con chiarezza la condizione di cittadino di questo pianeta e di questo tempo, senza predicazioni e senza ricatti, guardando in faccia le cose e la loro complessità. Il romanzo-saggio-diario di Cole fa pensare a Ralph Ellison e a Said, a Lasch e a Coetzee, e ci insegna a guardarci intorno e a cercare chiavi e risposte.

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