J.M. Coetzee, L’infanzia di Gesù
Einaudi, 250 pagine, 20 euro
Come molti altri scrittori in età matura, anche Coetzee sente il bisogno di confrontarsi con la figura centrale della storia e della cultura non solo occidentali, e narra di una “sacra famiglia” di fatto dal punto di vista di un padre putativo di grande buon senso che, in un luogo immaginario (ispanico, e dove il welfare funziona) in cui è piombato da chissà dove, si prende carico di un bambino solo, di cui deve ritrovare la madre.
Insieme, dopo vicissitudini ricche d’incontri tra profughi e proletari, i tre si muoveranno verso un mondo futuro al seguito del bambino, via via più cosciente e deciso, insieme a un cane e a un giovane autostoppista.
Coetzee sa che i nostri sono decisivi anni di svolta, ma non si direbbe che la parabola che ha immaginato sia altrettanto decisiva, pregnante. Scrive e costruisce con incomparabile maestria ed è attento a non predicare ma a narrare, ma se la sua ambizione era dire qualcosa di significativo e di rilevante su e per questo tempo, attestata dal titolo (all’interno del romanzo mai si parla di Gesù, al bambino è stato assegnato il nome di David) non si direbbe che l’impresa sia riuscita.
Si legge il romanzo con interesse e con molto amore, ma ricavandone solo un moderato piacere intellettuale, e ci si chiede verso dove Coetzee, con questa sua ambigua provocazione, voglia portarci.
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