Alessandro De Roma, La mia maledizione

Einaudi, 162 pagine, 16,50 euro

Al suo quinto romanzo, Alessandro De Roma può dirsi uno dei migliori narratori italiani e dei più schivi e più solidi. Tenuto a battesimo dal Maestrale nuorese, approda da Einaudi con un romanzo intensissimo, che fa dapprima pensare a un Le grand Meaulnes sgradevole, anti-sentimentale, e ci conduce al contrario su un territorio – oggi uno dei più difficili ma anche dei più attuali – che diremo dostoevskiano.

È il racconto che un uomo molto comune, italiano medio di oggi, fa della sua amicizia con un coetaneo rozzo e reietto. Emilio è di Oristano, città di mare e di traffici, figlio di un distruttivo e banale palazzinaro; Pasquale, detto a scuola “la fogna” perché le sue scarpe puzzano, o Cosseddu col solo cognome, è di Nuoro, città di monti e di boschi, anima arcaica dell’isola.

E Nuoro evoca Deledda (uno dei luoghi del romanzo è la chiesa della Desolazione) e Satta (ma “Il giorno del giudizio” è qui il nome dato a un supermercato di seconda categoria).

Dalle superiori alla piena età adulta, è un rapporto tra una presunta civiltà più che distruttiva e la presunta arretratezza di un mondo di natura che tiene i due insieme, narrata da un Emilio incapace di rotture e di generosità, e che non ignora la propria meschinità, ma la scruta e la tollera: la viltà del nostro tempo e della nostra età adulta, e l’eterno confronto tra ricchi e poveri, tra i “colti” e i selvatici.

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