Juan Rulfo, Pedro Páramo
Einaudi, 141 pagine, 12,50 euro
È uno dei capolavori della letteratura del novecento che nell’America Latina va messo accanto ai racconti e ai romanzi di Borges e Cortázar, Arguedas e Carpentier, Guimarães Rosa e M. de Andrade. Per il tema, che è infine il mondo dei morti, la sua contiguità e (nelle visioni indie) il suo mescolarsi col nostro, ha l’altezza di I morti di Joyce, che molti considerano il più bel racconto dello scorso secolo. Rulfo (1918-1986) ha scritto poco (i racconti di La pianura in fiamme) ma la sua influenza è stata enorme e imprescindibile, e lo è ancora oggi. Senza trama o con molte trame, sullo sfondo delle ultime caotiche vicende della rivoluzione, la scarsità e la violenza sono la condanna di una condizione umana tragicamente primaria, dove essere morti o essere vivi è, come ne disse Pasolini, la stessa cosa.
Chi è vivo, chi è morto? Le pene della vita non si placano nella morte, e l’autore sembra registrare ciò che è e ciò che è stato o sarà, la compresenza dei tempi e delle esistenze sullo sfondo desolato e pietroso di un villaggio, Comala, teatro di brutalità e di sofferenza. Registra “i mormorii” più segreti (tale il primo titolo del libro), unisce il momento e l’eterno, l’animale il minerale il vegetale, e la loro comune e cosmica sofferenza – come un rancore verso la creazione – in un romanzo che è desolata poesia, desolata preghiera.
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