Carlo D’Amicis, Quando eravamo prede

Minimum fax, 188 pagine, 14 euro

Questo strano romanzo mescola in modi molto interessanti preistoria e postmodernità e l’eterno incrocio di civiltà e barbarie. Ma non lo fa con la presunta scientificità di Prima di Adamo di London o Uomini nudi di Golding (o con il gusto dell’avventura alla Rosny Sr. e Rice Burroughs o con l’umorismo di Johnny Hart) e nemmeno con la sapiente mescolanza di fatti antichi e lettura odierna di Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis.

È l’opera migliore di un cinquantenne appartato e saggio, che sembra voler ragionare sul destino dell’uomo alla luce di una sfiducia extrastorica ed extrascientifica. Dietro le vicende di una piccola tribù di umani più-che-antichi e più-che-moderni la questione che viene posta è: “Noi non siamo più animali. Né siamo ancora esseri umani”. E a essa segue la domanda: “E cosa siamo allora?”. D’Amicis racconta una mutazione che non risulta a favore dell’uomo bensì dei topi, poiché saranno loro, nel finale angoscioso del romanzo, a vincere.

Avventura filosofica sul filo del paradosso, i suoi protagonisti hanno tutte le imperfezioni dell’uomo di ieri e dell’uomo di sempre, e meriterebbero di venir trasposti in fumetto adulto o in film d’animazione che potessero renderne la rapidità e la vivacità, il continuo effetto sorpresa che diverte, ma che sottilmente angoscia per la sua intelligenza dell’oggi e del sempre.

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