Il film di Roberto Minervini, marchigiano trapiantato negli Stati Uniti, ha un titolo esemplare: What you gonna do when the world’s on fire?, che fare quando il mondo è in fiamme? L’antica domanda pochi oggi se la pongono, cercando al contrario una propria accettabile sopravvivenza in un mondo al crepuscolo, preso tra le nuove barbarie che si vogliono universali (tecnologiche, attorno al trono del Dio Mercato) e le risposte più brutali e antiche, da homo homini lupus. Come recita il titolo del bellissimo libro postumo di Luca Rastello, se un domani è ancora ipotizzabile, forse Dopodomani non ci sarà.

In questo contesto che non si può definire che apocalittico, ma che non si osa osservare privi dei paraocchi di questa o di quella ideologia consolatoria, mentre i più, quasi tutti, hanno come unica filosofia quella del “tira a campare” insieme alla propria famiglia al proprio clan alla propria tribù, pochi, infime minoranze, cercano ancora di ragionare e soprattutto di reagire. Anche se disperati – poiché illudersi che il corso delle cose possa mutare è impossibile – “non ci stanno”, e fino all’ultimo cercano ancora la strada della rivolta, non-accettando il mondo così come ci viene imposto da chi comanda.

Torna dunque il “che fare?”, torna l’angosciante domanda che tante minoranze responsabili si sono poste in momenti gravi della storia, quando sembrava che non restasse più molto da intraprendere onde contrastare il corso delle cose, opporsi al “tallone di ferro” dell’oligarchia.

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Questa domanda oggi ben pochi se la pongono, e ben pochi cercano nuove o antiche strade della non-accettazione. Tutti o quasi accettano, accettiamo, le cose come vanno. E semmai cerchiamo o facciamo finta di cercare (anche i “buoni”, e questi, intellettuali o operatori, semmai con maggior falsa coscienza dei cattivi e dei loro sostenitori) delle vie d’uscita che appaiono subito vecchie e sterili, inadeguate e insufficienti. Ne deriva un sentimento acuto e insopportabile di impotenza, di disperazione, che bensì è presto soffocato da una quotidianità senza pensiero e senza progetto, o con la finzione del pensiero, la finzione del progetto. Si tira a campare, appunto. Tutti o quasi tutti fingendosi (i “buoni”: intellettuali e operatori e “persone comuni”) che la vita comunque continua, che il mondo comunque andrà avanti, che la storia non si ferma, e arrivando perfino a convincersi che quello in cui viviamo è, nonostante tutto, il migliore dei mondi possibili.

I protagonisti del film di Minervini “non ci stanno”, non vogliono subire, reagiscono e cercano strade vecchie e strade nuove per farlo. Sono pochi, sono quattro gatti e per di più neri, sono un’infima minoranza dentro una grande minoranza che china il capo e subisce, non risponde se non, pochi, con fiammate d’ira che si spengono presto da sé o vengono spente facilmente. Sono minuscoli gruppi di cercatori ostinati, che hanno capito bensì l’essenziale; e prendendo dagli esempi del passato e da quanto hanno intorno la forza e i modelli per continuare ad agire.

Non accettano le cosiddette regole del gioco scritte dai potenti e accettate dalle maggioranze, dalla quasi-totalità delle persone oggi più che mai grazie al peso che hanno sulle loro (nostre) coscienze sempre più raffinati e penetranti strumenti di “comunicazione” (cioè di pubblicità, perlopiù indiretta ma anche diretta) elaborati da tecnici e intellettuali, da servi volontari del “sistema”. E rispondono con la sfida che, a ben vedere, è stata in passato e altrove il “non accetto” dei Gesù e dei Gandhi, dei Thoreau e dei Tolstoj, e per loro, i neri del paese più ricco e più classista e forse anche più razzista del mondo, dei Martin Luther King ma anche dei Malcolm X, sulla scia dei Marx e dei Proudhon, dei Guevara e dei Lumumba e di un’infinità di contadini operai artigiani studenti. Dei gruppi nonviolenti ma anche di quelli che hanno creduto, come Brecht, che “solo violenza aiuta dove violenza regna”. I migliori tra loro sono stati, io credo, coloro che furono più coscienti che “non si lava con l’acqua sporca” (Capitini) e che tra i mezzi e i fini c’è un rapporto stretto e indissolubile, che va rispettato pena la degenerazione di ogni progetto, di ogni ideale.

I protagonisti del film di Minervini non sono il frutto dell’immaginazione del regista, li ha incontrati, ha vissuto tra loro e li ha convinti a recitare se stessi in un film che è certamente molto più importante di qualsiasi altro film del recente carnevale veneziano. Finalmente, qualcosa di più che un film!

Come in altri carnevali della società dello spettacolo, si è constatata ancora una volta, leggendo i giornali, la morte della critica, che da tempo ha rinunciato alla sua funzione stimolatrice, provocatrice e, perché no?, educatrice, preferendo una posizione di servizio (servizio di chi?) o, i più protervi, una post-modernità a-ideologica e iper-accettante. Il cinema è diventato un’arte secondaria dagli anni ottanta dello scorso secolo dopo essere stata quella socialmente centrale del novecento, avendo perduto il contatto con il grande pubblico e dunque la sua funzione sociale, così come ogni ambizione a riconquistarla.

Tal quale le “persone comuni”, la critica (non solo cinematografica) si è mostrata pronta ad accogliere e a far proprie ogni menzogna, ogni ipocrisia, ogni falsa coscienza, e ha perfino smesso di inventarsi degli alibi, delle scusanti. Ai pochi ancora dotati di gusto e sensibilità, viene però da chiedere, come talvolta si è fatto in passato e come in qualche testo di Shakespeare (l’Enrico IV?): “Sotto che re, briccone?”.

I registi delle nouvelles vagues mondiali degli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo, che venivano in parte rilevante proprio dalla critica, si ribellarono contro quello che i francesi chiamavano “il cinema di papà”. Con facile battuta, si potrebbe dire che il cinema che i critici di oggi sono tornati ad amare è proprio quello, il cinema “ben fatto”, l’ “opera chiusa”, professionalmente solida, e su temi “forti”, tuttavia rispettabile e amabile e godibile, e a non tollerare, nel sogno di una restaurazione impossibile, l’opera aperta, aperta a quel che accade visibilmente o sotterraneamente nel mondo che viviamo. Ma al “cinema di papà” i più (i più giovani) aggiungono un cinema al gusto del giorno, che si potrebbe definire come il “cinema dei figli di papà”, dei “figli del tempo” che vivono allegramente la propria alienazione senza avvertirne quanto li condizioni e avvilisca. Mutati volontariamente su azione di un sistema abilissimo, che è riuscito a farne insieme delle vittime e dei complici, degli strumenti.

È qualcosa di più che un film, questo generoso, onesto e superbo ritratto di un piccolo gruppo di resistenti attivi

Ma torniamo al film di Minervini, che segue una piccola comunità di militanti neri ostinata e pervicace nelle sue convinzioni, una piccola comunità che non cessa di organizzarsi e di fare. Il film la segue e la racconta, con semplicità immediata e in tutte le sue maggiori difficoltà, nella elaborazione delle sue persuasioni, nei suoi dilemmi pubblici come in quelli privati. Si mischia con donne, uomini e bambini, con vecchi e giovani, ed esplora insieme a loro il contesto in cui vivono, e non può non sposare i loro sguardi obbligatoriamente critici – come non possono che essere gli sguardi degli ultimi, dei materialmente oppressi, dei migranti, dei marginali, degli scarti, degli insoddisfatti di un sistema che mente e li tradisce. Ma come non possono che essere anche gli sguardi dei coscienti. Ci racconta cosa fanno, come rispondono all’eterna domanda del “che fare?”. E ci parla di oggi, proprio di oggi, fermamente di oggi.

È qualcosa di più che un film, questo generoso, onesto e superbo ritratto di un piccolo gruppo di resistenti attivi dentro l’oscena modernità che sta trascinando tutti nell’abisso, coscienti e incoscienti, chi se ne rende conto e chi no e chi fa finta di niente.

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