Con Qui rido io Mario Martone ha affrontato un periodo cruciale della storia italiana, gli anni detti in Europa della belle époque, ovviamente quella della borghesia trionfante che si chiusero sciaguratamente con la prima guerra mondiale e l’avvento di più dittature, e che in Italia portarono il nome del più duraturo dei presidenti del consiglio, Giovanni Giolitti. Anche Napoli ne godette, e vide la prima affermazione di una borghesia post-borbonica e post-risorgimentale nuova e aggressiva. Sono gli anni, tra l’altro, a Napoli, del grande giornalismo di Matilde Serao e di Edoardo Scarfoglio, del trionfo della canzone dialettale, la migliore canzone mai avuta dal nostro paese, la cui forza è durata fino agli settanta. Sono stati anche gli ultimi anni di grande rilievo nella storia dello spettacolo a Napoli, e di cui si sente l’eco in Qui rido io e se ne ritrovano volti e se ne ascoltano voci, perché l’originale commento musicale del film è fatto di canzoni, senza che via sia una concordanza tra la loro epoca e i loro temi con gli eventi narrati nel film.

Nel campo della cultura, la belle époque napoletana ebbe molti nomi, oltre Serao e Scarfoglio: Salvatore Di Giacomo e Roberto Bracco ed Ernesto Murolo, e il Ferdinando Russo delle nostalgie borboniche, e il Francesco Mastriani dei romanzi d’appendice, e il giovane Benedetto Croce di cui il film anche parla e che mostra quando interviene nel processo intentato da D’Annunzio a Eduardo Scarpetta per la sua parodia della Figlia di Jorio. Che era la parodia di un estetismo estremo: un altro volto della borghesia e quello più protetto ed esaltato, di scarso rapporto con il “sociale” e di più stretto rapporto con il sogno di una cultura estetizzante e idealizzante, ben diversa da quella che rideva a teatro con Eduardo Scarpetta.

Sentendo meglio di tutti il mutar dei tempi, Scarpetta aveva abbandonato Antonio Petito e il suo Pulcinella (con Petito si era formato, e aveva assistito in teatro, sul palcoscenico, alla morte fisica del grande mimo) per guardare alla pochade francese (la belle époque per eccellenza) e per inventare un personaggio che di Pulcinella aveva ancora qualche tratto, ma che abbandonava la plebe per la borghesia e la piccola borghesia crescenti, un giovane dandy furbastro e borghesuccio, Felice (o Feliciello) Sciosciammocca. È significativo, credo, che Luchino Visconti e Suso Cecchi D’Amico avessero pensato a lungo a un film su Petito da far interpretare a Totò e che purtroppo non si fece (e prima a un Marchese del Grillo per Aldo Fabrizi, che sarebbe stato certamente diverso da quello di Monicelli, Zapponi e Sordi). E che il capocomico Scarpetta prendesse parte a suo tempo a qualche film muto, con apparizioni in parte recuperabili.

Guardando Parigi
È significativo che la commedia più rappresentata da Scarpetta tra quelle da lui scritte rubandone i copioni a Parigi fosse ‘Na santarella, dalla francese Ma’mselle Nitouche musicata da Hervé. Quella di Scarpetta fu di fatto una traduzione e perfino un plagio o un adattamento, come altri suoi lavori. La borghesia napoletana e Scarpetta insieme a lei guardavano a Parigi. La villetta in collina che Scarpetta si fece costruire e sulla cui facciata volle fosse incisa la scritta “Qui rido io”, fu edificata con i proventi di quella sola commedia.

Scarpetta fu dunque un abilissimo innovatore nel corso dei tempi e della storia; fu il portavoce di una novità che era bensì anche quella di cui era portavoce D’Annunzio. Anche lui guardava a Parigi ma a quella dei grandi salotti, rinunciando a ogni umore plebeo e aspirando al sublime… Fu uno scontro, quello giuridico sul “plagio” scarpettiano della Figlia di Jorio, tra un’anima borghese che rinnegava le sue origini e una che invece continuava a nutrirsene e a rivendicarle. La parte del film di Martone che riguarda il processo D’Annunzio-Scarpetta è tra le più istruttive del film. Ha del didascalico, e giustamente. Ma il film, oltre al famoso processo, punta tutto su altri due forti cardini: il teatro, la famiglia.

Il teatro è stra-presente nel film, giustamente, e Toni Servillo è uno Scarpetta più che convincente (come Maria Nazionale e tutti gli altri attori), mettendoci qualcosa di suo, allontanandosi dall’imitazione. Forse Martone avrebbe dovuto stilizzare di più il teatro che mostra, dandogli più distanza, ma la scelta di una sorta di fusione tra palco e platea era troppo attraente per un autore che a Napoli si è formato e che il teatro napoletano ha, con amore, studiato. Forse avrebbe dovuto guardare anche agli esempi della “scarpettiana” televisiva e perfino alla trilogia di Totò e Mattoli (Miseria e nobiltà, Il turco napoletano, Il medico dei pazzi, tutti “a colori”, anche se Totò aveva già fatto uno Scarpetta in bianco e nero, Sette ore di guai, tratto da ‘Na criatura sperduta). Insomma il teatro è uno dei tre elementi che costituiscono il film, lasciando da parte ma non troppo il commento musicale, insieme al processo e, dominante e necessariamente al primo posto, la famiglia.

La famiglia del pascià
È qui, raccontando questa famiglia abnorme, che Martone dà il meglio di sé, aiutato in tutta evidenza dalla sceneggiatrice Ippolita Di Majo, esplorando e dipanando il groviglio di un nucleo plurimo e bizzarro, con Scarpetta padre di molti figli avuti da più donne (non nemiche tra loro), da pascià d’altri tempi, e legando tutti i suoi figli al mondo del teatro, anche per servirsene e non soltanto per dar loro una professione, un futuro. Il futuro del suo teatro. Martone è anche assiduo regista teatrale, nel mondo del nostro spettacolo, ed è nel teatro della famiglia, “eduardiano” per eccellenza, che qui eccelle, con scene belle e piene, indimenticabili soprattutto quelle dei pranzi in comune, con “mogli”, figli e altri teatranti. Il pasto, il cibo come unità, come cultura, come Napoli…

Forse – siamo incontentabili! - avrebbe giovato alla ricostruzione martoniana uno sfondo storico più insistito, considerando che la belle époque finì con una guerra mondiale e fu di preludio al fascismo, a un’epoca con la quale il mondo del teatro avrebbe dovuto scendere a patti, come accadde per esempio ai tre più noti tra i figli di Scarpetta, Titina, Eduardo e Peppino De Filippo (quest’ultimo autore di un libro di memorie crudeli sulla sua strana famiglia) e al più grande rivale loro e del padre, Raffaele Viviani. Martone seppe farlo benissimo in Noi credevamo, un film “storico” a tutti gli effetti e tra i pochissimi dedicati dal cinema al nostro Risorgimento, e nel Giovane favoloso su Leopardi, mentre qui sembra un po’ trascurarlo.

C’è un breve momento del film, in cui uno stanco Scarpetta cammina nella notte per un vicolo, che può far pensare a una scena simile ma più insistita e cruciale del Gattopardo viscontiano: la malinconia di un mondo che muore, e non si sa cosa verrà dopo. Ma non tutto cambia perché niente cambi, e i tre De Filippo, forse più geniali del loro padre e la cui immagine chiude il film, hanno dovuto tenerne ben conto.

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