Assistito da uno sceneggiatore attento e dotato come Marco Pettenello (Padova 1973), Andrea Segre (Dolo 1976) continua nella sua necessaria impresa di raccontare una contemporaneità che è soffocata in genere dalla banalità giornalistica, dai nostri stessi luoghi comuni. Estremizzando: salviniani (osceni) e veltroniani (patetici).
Sono convinto che Andrea Segre sia più bravo (e ci sia più utile) per i suoi film a soggetto che per i suoi documentari. La prima neve, Io sono Li, e soprattutto L’ordine delle cose hanno affrontato, da o su sfondi quasi sempre nordestini, temi centrali del nostro presente, le contraddizioni che sono della nostra società e dei suoi vari e pesanti egoismi, i dilemmi che dovremmo affrontare, e che anzi avremmo da tempo dovuto affrontare in modo meno caotico e irresponsabile, sia i governanti che i governati…
Welcome Venice ha due limiti, non “politici”, e ha per fortuna molti pregi e maggiori. Il primo gli viene da una certa ridondanza: la situazione è da subito chiara, ma vi si torna e ritorna insistendo su cose già dette e che lo spettatore ha compreso molto presto, nell’evoluzione della vicenda e nella presentazione dei personaggi.
Ragioni ricattatorie
Si tratta in sostanza del conflitto tra due fratelli che vengono da una stirpe di pescatori (allevatori di moeche, granchi di laguna commestibili) ma uno dei quali, Alvise, si è dedicato ad altro, smanioso di denaro e dunque di svendere ai turisti – siamo alla Giudecca – una bellezza che è anche storia, e che è anche storia di famiglia e che è una tradizione e una morale, la casa paterna di cui condivide la proprietà con il fratello; che (Pietro) resiste come può alle sue lusinghe e a quelle di altri, chi più e chi meno smanioso di sfruttare il turismo, nel bisogno che tutti dicono di avere di denaro con le giustificazioni più varie, soprattutto d’ordine famigliare (i figli, i figli!). Ragioni varie e pur sempre ricattatorie, e non a caso i personaggi più “positivi” e più amabili finiscono per essere un patriarca che muore e un ragazzino che cresce…
Andrea Segre racconta una scena di Welcome Venice
Alvise è Andrea Pennacchi, Pietro è Paolo Pierobon, circondati da un gruppo di attori che passano tranquillamente da lingua a dialetto, e li mescolano come è da tempo d’uso; credibili ed efficaci, specialmente i protagonisti, in un contorno che è famiglia e di più generazioni, e che è anche vicinato e quartiere, ma non più “campiello”. Vince alla fine il ricatto del denaro, e Pietro accetta perfino di trasferirsi casa e famiglia a Mestre, nell’Italia “continentale”, oltre il grande rettifilo che sembra poggiato sul mare.
In mezzo a questi incontri e scontri, tra dialoghi circuenti e affannosi, sul fondo di questo conflitto che ha anche momenti drammatici nel rapporto tra i due fratelli (anche quando civilizzati, i Caini e gli Abeli continuano a essere l’eterno paradigma del genere umano) c’è, per fortuna, anche la meraviglia della natura, c’è la luce e ci sono i colori del mare e della terra, delle albe dei mezzogiorni dei tramonti, splendidamente e amorosamente fotografati.
Oltre una certa ripetitività delle situazioni, che ne smorza l’evidenza e la drammaticità, potrebbe nuocere al film l’impressione che possa essere stato superato dai fatti. La battaglia per Venezia è stata persa, mi pare, ormai da decenni. Ma amici veneziani e competenti ribadiscono che il problema denunciato dal film, la svendita della vecchia Venezia ai “maledetti turisti”, è più attuale che mai, con aspetti nuovi e radicali.
Quest’appassionata e commossa elegia su una mutazione tanto odiosa quanto economicamente e storicamente e sociologicamente fatale, suscita nello spettatore una grande malinconia: per la “beltà” (avrebbe detto Zanzotto) di cui siamo figli e che abbiamo tradito o stiamo finendo, proprio in questi anni, di tradire.
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