Una settimana fa il Kurdistan Times metteva in guardia i suoi lettori: “i britannici stanno esercitando il classico linguaggio coloniale per controllare le menti e smorzare le aspirazioni degli scozzesi che vorrebbero votare sì all’indipendenza”. Alla fine il risultato è stato proprio quello previsto dal quotidiano. I manipolatori colonialisti hanno convinto gli scozzesi a votare no, e con un margine abbastanza solido, 55 per cento contro il 45 per cento di sì.

Il no ha vinto con un distacco ben più ampio rispetto all’ultima volta che in un paese occidentale si è votato su una proposta di secessione, in Canada nel 1995. In quell’occasione soltanto il 50,5 per cento degli abitanti del Quebec aveva votato no, contro un 49,5 per cento di “sì”.

Per il Canada era stata un’esperienza traumatica, anche perché lì il Quebec ha un peso molto più grande di quello che ha la Scozia all’interno del Regno Unito. La provincia francofona ospita infatti quasi un quarto della popolazione canadese, mentre in Scozia vive soltanto l’8 per cento dei britannici.

All’epoca molti canadesi pensavano che lo smembramento del loro paese fosse solo rinviato. Quello del 1995 era infatti il secondo referendum sull’indipendenza del Quebec, e stavolta il risultato era stato molto più in bilico rispetto al 1980 (60 per cento di no e 40 per cento di sì). I separatisti erano convinti che la terza volta sarebbe stata quella buona, mentre tutti gli altri presumevano che a forza di referendum il Parti quebecois avrebbe ottenuto il risultato sperato.

In quel periodo il giornalista di Montreal Josh Freed creò l’espressione “Neverendum” (referendum senza fine) per descrivere quel processo, e per oltre un decennio tutti in Quebec hanno pensato di essere imprigionati in questo meccanismo senza uscita. Ma avevano torto. Quasi vent’anni dopo, la prospettiva di un terzo referendum in Quebec è più che mai lontana.

Ad aprile in Quebec si sono svolte le elezioni provinciali. Il Parti quebecois era nettamente favorito, almeno fino a quando uno dei suoi candidati più in vista ha cominciato a parlare di un altro referendum sull’indipendenza provocando un crollo nelle preferenze. Un sondaggio recente ha rivelato che il 64 per cento degli abitanti del Quebec (e la percentuale sale tra i giovani) non vuole più sentir parlare di referendum.

Lo stesso processo potrebbe verificarsi anche in Scozia? Sarebbe un bene, perché se si continuerà a parlare di referendum il paese potrebbe seguire il destino toccato al Quebec: una recessione prolungata causata dal fatto che gli investitori preferiscono evitare un paese il cui futuro è così incerto mentre alcune grandi aziende abbandonano il campo. Il problema in Quebec non era che tutti pensavano che l’indipendenza sarebbe stata un disastro, ma che nessuno poteva essere certo che non lo sarebbe stato.

Il risultato è che la porzione del pil canadese rappresentata dal Quebec, che ai tempi della prima vittoria del Parti quebecois nel 1976 era attorno al 25 per cento, oggi è appena del 20 per cento. Stiamo parlando di una perdita annuale di 90 miliardi di dollari di attività economica, e questo nonostante negli ultimi 12 anni la prospettiva di un nuovo referendum sia diventata sempre più lontana.

In che modo la Scozia può evitare un simile destino? Innanzitutto la devo max – la massima delega di poteri da Londra a Edimburgo – dovrà funzionare così bene da placare il comprensibile desiderio degli scozzesi di avere più controllo sul loro governo e la loro economia, in modo che nessuno parli più di indipendenza. Ma non sarà così facile.

La devo max lascerebbe sotto il controllo del parlamento di Londra poco più che la difesa e gli affari esteri. Tutto il resto verrebbe deciso dagli scozzesi, incluse le tasse e il bilancio per la sanità e lo stato sociale.

Ma allora qual è il problema? In fondo la Scozia era già incamminata su questa strada prima del referendum. Negli ultimi, concitati giorni prima del voto, quando per un breve momento è sembrato che il sì potesse ottenere una vittoria risicata, i tre maggiori partiti britannici hanno promesso di completare il processo di delega dei poteri.

Il problema è che mantenere le promesse, che comporta la presentazione di una proposta di riforma costituzionale al parlamento di Westminster entro marzo, sarà tutt’altro che facile. Dalle attuali tre versioni della proposta, infatti, bisognerà passare a un’intesa su un testo unico (che soddisfi anche la maggioranza degli scozzesi) in appena sei mesi.

Ancora più preoccupante è il fatto che alla Scozia non potranno essere concessi nuovi poteri lasciando inalterate le competenze delle altre parti del Regno Unito (Galles, Irlanda del nord e addirittura le varie regioni dell’Inghilterra), a cui bisognerà concedere qualche forma di decentramento. Il dibattito in merito, però, non è nemmeno iniziato.

In poche parole, nei prossimi sei mesi il Regno Unito dovrà mettere a punto e approvare la sua prima costituzione scritta. Codificare gli arrangiamenti attuali non basterà, sarà necessario cambiarli radicalmente. Nel frattempo i sostenitori delusi dell’indipendenza scozzese approfitteranno di qualsiasi occasione per sostenere che “gli inglesi” si stanno rimangiando la parola data.

Quali sono le reali possibilità che la Scozia sfugga alle conseguenze negative di un lungo periodo in cui un secondo referendum aleggerà all’orizzonte mentre si accumulano i danni economici? Non molte, purtroppo.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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