La folla di manifestanti nelle strade di Hong Kong continua a crescere. Dal distretto finanziario la protesta ha raggiunto Kowloon e Causeway bay. La polizia usa gas lacrimogeni e spray urticante, e presto arriveranno anche i proiettili di gomma. Non è la fine del mondo, ma si tratta comunque della protesta più imponente organizzata in Cina da quando il movimento per la democrazia di piazza Tiananmen è stato soffocato nel sangue 25 anni fa.
Naturalmente Hong Kong è una realtà molto diversa dal resto della Cina, e la regione non è sottoposta alla stessa dittatura arbitraria che incombe sul resto del paese. Nonostante sia rimasta sotto il controllo del regime comunista di Pechino da quando il Regno Unito ha restituito i suoi territori al governo cinese nel 1997, l’accordo siglato da Londra garantiva che per 50 anni Hong Kong avrebbe mantenuto il suo sistema sociale, inclusi la libertà di espressione e lo stato di diritto.
L’accordo “uno stato, due sistemi” prevedeva inoltre che “la regione amministrativa speciale di Hong Kong” sarebbe diventata più democratica con il passare del tempo. Al momento della partenza dei britannici esisteva già un consiglio legislativo eletto, ma Pechino aveva promesso che entro il 2017 anche il chief executive sarebbe stato eletto democraticamente. Attualmente la carica è assegnata da una “commissione elettorale”, formata da 1.200 persone e nettamente filocinese.
La verità è che le elezioni libere sono una concessione troppo democratica per il regime cinese, preoccupato che il resto della Cina possa avanzare simili rivendicazioni. Per questo motivo il governo ha deciso di non mantenere la sua promessa. Il mese scorso l’assemblea nazionale del popolo ha dichiarato che a contendersi la poltrona di chief executive potranno essere solo tre candidati, che avranno inoltre bisogno dell’approvazione di una commissione nominata da Pechino.
Questa svolta è all’origine dell’ondata di proteste. “Che differenza c’è tra un’arancia marcia, una mela marcia e una banana marcia?”, ha chiesto durante un raduno Martin Lee, presidente fondatore del Partito democratico. “Vogliamo un vero suffragio universale, non una democrazia di stampo cinese”.
Li Fei, vicesegretario della commissione cinese che ha redatto la nuova regola, ha dichiarato che l’aumento delle candidature creerebbe una “società caotica” e ha sottolineato che Hong Kong dev’essere governata da una persona che “ama il paese e ama il partito”. Questo tipico approccio comunista ha lasciato ai democratici di Hong Kong solo due alternative: protestare o arrendersi. Oggi per le strade di Hong Kong ci sono migliaia di manifestanti, ma come evolverà la situazione?
La tempistica non è favorevole al movimento filodemocratico di Hong Kong, perché il (relativamente) nuovo leader supremo di Pechino, il presidente Xi Jinping, non può permettersi di fare concessioni.
Da quando è salito al potere due anni fa, Xi ha lanciato una massiccia campagna anticorruzione che gli ha procurato diversi nemici. Almeno trenta alti funzionari (insieme a centinaia di parenti e collaboratori) sono stati indagati o incarcerati. Se la purga si estenderà potrebbero essere (giustamente) arrestati migliaia di funzionari. Nell’ultimo anno e mezzo circa settanta funzionari si sono tolti la vita.
La campagna contro la corruzione è assolutamente necessaria, ma incontra una feroce opposizione da parte di quelli che temono di poterne pagare le conseguenze, come la famiglia e i collaboratori degli ex presidenti Hu Jintao e Jiang Zemin. La rabbia nei confronti del governo è alimentata anche dal fatto che la famiglia e i collaboratori del presidente Xi Jinping sono stati magicamente risparmiati dalla purga.
Molti esponenti di spicco della gerarchia comunista sarebbero felici di vedere Xi indebolito o almeno costretto a fermare la sua campagna anticorruzione. Se il presidente si arrendesse alle proteste di Hong Kong, offrirebbe un pretesto ai suoi nemici per schierarsi contro di lui a difesa del monopolio di potere del Partito comunista, e non solo dei loro interessi personali.
Anche un eccessivo uso della forza per sedare la protesta e un eventuale massacro provocherebbero un’ondata di critiche nei confronti di Xi, ma in questo caso gli attacchi arriverebbero solo dall’estero. Come abbiamo constatato ai tempi di piazza Tiananmen nel 1989, i quadri comunisti hanno la tendenza ad appoggiare l’uso della forza per difendere i loro poteri e privilegi.
Per quanto riguarda l’opinione pubblica cinese, gli eventi di Hong Kong sono descritti dai mezzi d’informazione statali (quando ne parlano) come azioni antipatriottiche di persone manipolate dalle potenze straniere. Molti cinesi non credono a questa versione, ma allo stesso tempo non intendono ribellarsi per sostenere il popolo di Hong Kong, che considerano privilegiato e viziato.
Senza dubbio Xi Jinping preferirebbe vincere lo scontro con il movimento democratico di Hong Kong in modo pacifico, ma è pronto a usare tutta la violenza che sarà necessaria per reprimere la protesta. Un bagno di sangue danneggerebbe profondamente le relazioni tra la Cina e il resto del mondo, ma il presidente ha ben chiare le sue priorità.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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