“La nazione araba, nella sua ora più buia, non ha mai affrontato una sfida alla sua esistenza e una minaccia alla sua identità come quella che incombe oggi”, ha dichiarato il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.
Veniva voglia di dire: neanche le Crociate? Neanche l’invasione mongola? Neanche la conquista europea di tutto il mondo arabo tra il 1830 e il 1920? Al Sisi pensa davvero che la peggior minaccia alla sopravvivenza e all’identità degli arabi sia un gruppo di combattenti tribali nello Yemen?
Al Sisi ha rilasciato questa dichiarazione durante il summit della Lega araba che si è svolto la settimana scorsa al Cairo e ha visto la creazione di una nuova forza militare panaraba che si opporrà a questa minaccia, quindi il ricorso alla retorica esasperata era comprensibile. Le forze aeree dell’Arabia Saudita e dei suoi vicini del Golfo stanno bombardando lo Yemen e si parla di un attacco di terra da parte delle truppe saudite, egiziane e perfino pachistane, ma sembra che tutto questo dipenda più dal panico che da un calcolo strategico.
Il panico è dovuto al fatto che lo status quo che ha caratterizzato il Medio Oriente dal 1980 circa sta per finire. L’Iran sta tornando in scena e a Riyadh c’è molta irritazione, soprattutto perché a spianargli la strada è stato proprio il grande amico e alleato dell’Arabia Saudita, gli Stati Uniti.
È stato l’accordo raggiunto il 2 aprile a Losanna tra l’Iran e il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia e Germania) a segnare la rottura dello status quo. L’intesa prevede la fine delle sanzioni contro l’Iran in cambio di 10-15 anni di rigidi controlli sul programma nucleare iraniano, ma permetterà anche all’Iran di uscire dalla prigione in cui è stato confinato dai tempi della rivoluzione del 1979.
Inizialmente la rivoluzione iraniana ha spaventato i paesi vicini, perché l’esempio di Teheran nel rovesciare un capo di stato filoccidentale e nell’assumere una forte posizione contro Israele era molto popolare tra le popolazioni arabe. La soluzione è stata dipingere l’Iran come un folle stato terrorista e isolarlo il più possibile dal resto della regione.
L’altra tattica adottata dagli stati arabi conservatori è stata sottolineare la distanza religiosa tra l’Iran (dove il 90 per cento dei cittadini è sciita) e i paesi arabi (le cui popolazioni sono almeno per l’85 per cento sunnite). Le differenze dottrinali sono reali, ma non così forti da convincere sciiti e sunniti di essere nemici naturali, a meno che qualcuno (come la propaganda di stato) lavori duro per ottenere un simile obiettivo.
Queste strategie hanno funzionato per vent’anni, aiutate da alcune azioni iraniane particolarmente stupide come quella di tenere in ostaggio il personale dell’ambasciata statunitense a Teheran per 444 giorni, ma verso la fine del ventesimo secolo stavano già perdendo parte della loro efficacia. Nel 2002 a salvare la politica della “quarantena” fu la scoperta che l’Iran stava cercando di sviluppare armi nucleari.
In realtà il programma non era altro che la continuazione di ricerche lanciate negli anni ottanta, quando l’Iraq aveva invaso l’Iran con il sostegno degli Stati Uniti (e mentre Saddam Hussein stava cercando di ottenere armi nucleari), e che erano state successivamente interrotte. Il programma era ripreso nel 1998, quasi sicuramente in risposta ai test nucleari effettuati dal Pakistan, il vicino orientale dell’Iran. È stato un altro errore da parte di Teheran, ma probabilmente il suo programma nucleare non ha mai avuto niente a che fare con Israele.
La presunta minaccia nucleare iraniana ha fornito il pretesto per un decennio abbondante di quarantena politica ed embargo commerciale, che ha indebolito economicamente e isolato politicamente l’Iran. Tutto questo ha avuto improvvisamente fine la settimana scorsa con l’accordo di principio raggiunto a Losanna, a meno che le lobby saudita e israeliana a Washington non riescano ad affossarlo nei prossimi mesi.
L’Iran ha all’incirca la stessa popolazione e lo stesso pil dell’Egitto, di gran lunga il più grande paese arabo, ma è molto più vicino geograficamente agli stati del Golfo e al campo di battaglia tra sciiti e sunniti in Iraq e in Siria, i cui due governi sono entrambi legati a Teheran. È a questo in realtà che si riferiva Al Sisi quando parlava di una minaccia esistenziale al mondo arabo e alla sua identità. Ma le sue parole non hanno comunque molto senso.
La sopravvivenza e l’identità degli arabi non sono a rischio e l’Iran non ha bisogno di dipingere gli stati arabi sunniti come nemici. Può darsi che la leadership iraniana perda il sostegno dei giovani, ma non ha assolutamente alcun bisogno di vaccinarli contro l’attrattiva dei sistemi di governo e delle politiche estere degli stati arabi promuovendo uno scontro di civiltà, perché quest’attrattiva semplicemente non esiste per i giovani iraniani.
Inoltre l’idea che le milizie houthi che oggi controllano gran parte dello Yemen siano in realtà al servizio dell’Iran – la principale giustificazione per l’intervento militare – non ha molto senso. Gli houthi sono sciiti come gli iraniani, ma hanno i loro interessi locali da difendere e l’Iran non ha nessun motivo plausibile per installarsi strategicamente nello Yemen. Si potrebbe tranquillamente scommettere che nello Yemen non ci sia un solo iraniano armato.
Se nel 2003 gli Stati Uniti hanno potuto inviare le loro truppe in Iraq appoggiandosi alla falsa nozione che Saddam Hussein possedesse armi di distruzioni di massa, allora oggi l’Arabia Saudita può credere di stare combattendo l’Iran nello Yemen. Nessun paese ha il monopolio della stupidità, e probabilmente Riyadh avrà parecchie occasioni di pentirsi di questo errore.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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