Si è trattato solo di un malinteso. Una giornalista di Fox News ha chiesto a Jeb Bush, candidato alle primarie del Partito repubblicano statunitense: “Sapendo ciò sappiamo oggi, avrebbe autorizzato l’invasione (dell’Iraq)?”. La sua risposta è stata: “Sì, l’avrei fatto”. Quando su di lui si è riversata una valanga di critiche, anche da parte repubblicana, si è giustificato dicendo di aver capito che l’intervistatrice avesse detto: “Sapendo ciò che sapevamo allora”.

È un errore comprensibile. “What we know now” (”ciò che sappiamo oggi”) in inglese è molto simile a “What we knew then” (”ciò che sapevamo allora”). Inoltre Jeb Bush ha ufficialmente dichiarato di essere ispanico (in una domanda d’iscrizione alle liste elettorali nel 2009), quindi il poveretto ha solo avuto qualche problema con la sua seconda lingua. Se gliel’avessero chiesto in spagnolo avrebbe capito perfettamente.

Siamo seri. Ascoltando l’intervista completa, è chiaro che Bush non voleva rispondere con un “no” secco perché sarebbe suonato come una condanna della decisione di suo fratello George W. d’invadere l’Iraq nel 2003. Ma appena ha potuto, ha spostato il discorso sugli “errori d’intelligence” che hanno tratto in inganno George W. spingendolo a invadere il paese sbagliato. Tutti possono fare un errore. Non è colpa di nessuno.

Hillary Clinton, favorita nella corsa alla candidatura presidenziale dei democratici, usa esattamente lo stesso tipo di argomentazione. La verità è che tutti i politici statunitensi che hanno votato a favore dell’invasione dell’Iraq all’epoca sostengono che alla base di tutto ci sia stato un problema d’intelligence. Forse alcuni dei meno importanti sono stati davvero ingannati.

Ma l’intelligence non è stata carente: è stata manipolata ad arte. Non c’era alcuna informazione plausibile che provasse che l’Iraq possedesse armi di distruzione di massa: all’intelligence statunitense è stato dunque chiesto di “trovare” qualcosa. In Iraq non c’erano neppure dei terroristi islamici: Saddam Hussein aveva perseguitato e ucciso chiunque fosse sospettato di esserlo, perché gli islamisti volevano ucciderlo.

La Cia ha cercato in tutti i modi di creare un collegamento tra l’Iraq e Al Qaeda, l’organizzazione responsabile degli attacchi dell’11 settembre. L’unica cosa che sono riusciti a trovare, tuttavia, è stata una voce secondo cui Abu Musab al Zarqawi, un islamista giordano poco noto ma che conosceva Osama bin Laden, era stato a Baghdad per farsi curare le ferite subite in Afghanistan tra maggio e novembre del 2002. In realtà in quel periodo si trovava in Iran.

Far rigare dritto i “cattivicome l’Iraq

All’inizio del 2003 lo staff della Casa Bianca non poteva non sapere che le informazioni di “intelligence” usate per giustificare l’invasione dell’Iraq erano false, perché erano stati loro stessi a chiedere alle loro spie di fabbricare quelle “prove”. In realtà la decisione era stata presa prima dell’elezione di Bush nel 2000 e degli attacchi dell’11 settembre 2001, per motivi che non avevano niente a che vedere con il terrorismo.

L’amministrazione Bush appena salita al potere era piena di persone chiamate “neoconservatori”, convinti che l’amministrazione Clinton fosse stata incapace di sfruttare lo status di unica superpotenza mondiale, che gli Stati Uniti avevano ereditato dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, per rimettere ordine nel mondo.

Ciò che serviva, dunque, era una prova di forza degli Stati Uniti che avrebbe costretto tutti i “cattivi” a rigare dritto. E quindi l’invasione di un posto qualsiasi e il rovesciamento del cattivo locale. L’Iraq è stata la scelta più ovvia: il paese era molto indebolito dopo dieci anni di embargo militare e Saddam Hussein era un tipo molto cattivo.

Non è ancora possibile fare un bilancio dei danni dell’invasione dell’Iraq, perché la lista continua a crescere. Abu Bakr al Baghdadi, leader del gruppo Stato islamico che controlla l’est della Siria e l’ovest dell’Iraq, ha cominciato a combattere gli statunitensi mentre faceva parte della resistenza irachena nel 2003.

Al più tardi nel 2006 si era unito al gruppo allora chiamato Al Qaeda in Iraq, composto perlopiù da jihadisti di altri paesi arabi che si erano riversati in Iraq per combattere gli invasori infedeli. E il fondatore di Al Qaeda in Iraq non era altri che Abu Musab al Zarqawi, che ha messo a frutto la reputazione di grande leader jihadista attribuitagli dai servizi di intelligence statunitensi per acquisire una vera posizione di comando nella resistenza.

Negli anni seguenti l’organizzazione ha accumulato esperienza di guerriglia e terrorismo e, attraverso vari cambi di nome e di leadership (Zarqawi è stato ucciso nel 2006), ha dato vita al gruppo Stato islamico. Baghdadi era presente durante tutto questo periodo e oggi si fa chiamare “Califfo Ibrahim”, pretendendo la lealtà e l’obbedienza di tutti i musulmani del mondo.

Dobbiamo molto, quindi, ai “necon” dell’amministrazione di George Bush che hanno insistito per invadere l’Iraq: gente come Dick Cheney (vicepresidente), Donald Rumsfeld (segretario della difesa) e Paul Wolfowitz (sottosegretario alla difesa) i quali hanno semplicemente usato gli attacchi dell’11 settembre come un mezzo per i loro preesistenti piani d’invasione dell’Iraq.

È stato Wolfowitz, più di tutti, a lavorare instancabilmente per collegare l’Iraq e il terrorismo. E indovinate un po’ chi è, a parte lo stesso George W. Bush, il nome più illustre nell’attuale équipe di consulenti di politica estera di Jeb Bush? Proprio lui, Paul Wolfowitz. Il problema di Jeb Bush non sono le sue assurde risposte, ma le persone che continua a frequentare.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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