La settimana scorsa una parte dell’esercito del Burundi si è ribellata, non per rovesciare l’ordine costituzionale ma per salvarlo. La rivolta è fallita dopo due giorni di scontri nella capitale Bujumbura. I generali che l’hanno guidata si sono arresi. “Spero che non ci uccidano”, ha dichiarato il leader del gruppo, il generale Godefroid Niyombare. Ma la loro sorte, come molte altre cose in Burundi, è ancora incerta.

Il piccolo paese densamente popolato (dieci milioni di abitanti) dell’Africa centrale viene da dieci anni di relativa tranquillità. Per mettere fine a una guerra civile durata dodici anni e che ha causato più di trecentomila vittime, è stato siglato un accordo di pace ad Arusha, in base al quale il nuovo presidente sarebbe stato il leader del gruppo ribelle hutu Pierre Nkurunziza e nell’esercito sarebbero state riservate delle quote di rappresentanze per hutu e tutsi.

In realtà è stato un compromesso abbastanza raffazzonato, anche perché gli hutu rappresentano l’80 del per cento della popolazione e i tutsi appena il 15 per cento. Tuttavia l’accordo ha impedito che il Burundi facesse la fine del vicino Ruanda, caratterizzato dalla stessa mescolanza etnica. Lì nel 1994, nel giro di tre mesi, furono massacrati ottocentomila tutsi e hutu moderati. Quindi per il Burundi l’accordo è stato sicuramente un fatto positivo.

Nel 2005 Nkurunziza è stato nominato presidente del Burundi per cinque anni (alla fine della guerra civile non c’era tempo per le elezioni) e nel 2010 ha ottenuto un secondo mandato quinquennale attraverso le urne. I problemi sono cominciati quest’anno, quando il presidente ha annunciato l’intenzione di candidarsi nuovamente alle elezioni previste per giugno. La costituzione approvata nel 2005 prevede che un presidente possa servire al massimo per due mandati.

Il limite dei due mandati è diventato uno standard per le nuove democrazie che si sono instaurate in Africa negli anni novanta. Dieci anni fa 34 paesi africani hanno inserito questa clausola nelle loro costituzioni. L’obiettivo era mettere fine al fenomeno dell’“uomo forte” nella politica africana e rendere possibile un cambiamento politico pacifico. Ma non ha sempre funzionato.

Negli ultimi 25 anni 18 presidenti africani hanno raggiunto il limite dei due mandati, ma solo otto si sono fatti da parte senza cercare di modificare la costituzione per abolire o cambiare il vincolo. Come ha ammesso mestamente l’ex presidente del Benin Ahmed Mathieu Kérékou, “se non lasci il potere, il potere lascerà te”. Gli altri dieci capi di stato, invece, hanno provato a emendare la costituzione per restare al comando dopo la fine del secondo mandato, e in sette ci sono riusciti.

Tutti i presidenti che hanno cambiato la costituzione hanno poi vinto le elezioni. Emblematico è il caso dell’ugandese Yoweri Museveni, che nel 1986 aveva dichiarato che “nessun presidente africano dovrebbe restare in carica per più di dieci anni”. Ventinove anni dopo, Museveni è ancora al potere e si prepara alle prossime elezioni.

Nel migliore dei casi il bicchiere è mezzo pieno. L’anno scorso il presidente del Burkina Faso Blaise Compaoré è stato travolto dalle proteste popolari quando ha provato a emendare la costituzione per ottenere un nuovo mandato. Oggi Pierre Nkurunziza non riesce ad accettare di farsi da parte dopo due mandati.

Il problema è che il Burundi è il paese sbagliato per questo tipo di manovre. La sua pace fragile e la sua relativa prosperità dipendono dalla convinzione di tutti nel fatto che i massacri etnici siano ormai alle spalle. A sua volta, questa fiducia dipende dal rispetto generale dell’accordo tra hutu e tutsi concluso ad Arusha nel 2000.

Già in passato Nkurunziza aveva mostrato insofferenza nei confronti dell’accordo. L’anno scorso, per esempio, ha provato a modificare la parte della costituzione che garantisce una rappresentanza fissa ai tutsi nelle istituzioni di governo. Di recente l’ala giovanile del suo partito, i cosidetti imbonerakure, è diventata una specie di gruppo armato, che ricorda la famigerata milizia interahamwe responsabile dei massacri in Ruanda. Tutto questo è fonte di grande preoccupazione.

Il primo passo del piano di Nkurunziza per restare al potere era ottenere dalla corte costituzionale un verdetto favorevole alla sua ricandidatura, in base al ragionamento che il primo mandato era stato affidato al presidente dal parlamento e non dalla popolazione attraverso il voto. La corte ha effettivamente confermato questa tesi, anche se uno dei giudici è immediatamente fuggito dal paese e ha confessato che i magistrati erano stati minacciati e costretti a emettere quel verdetto.

Ad aprile la presidente della commissione dell’Unione africana Nkosazana Dlamini Zuma ha espresso dubbi sulla decisione dell’alto tribunale burundese, sottolineando che gli accordi di pace di Arusha affermano chiaramente che un capo di stato non può ottenere un terzo mandato. L’Unione africana ha chiesto il rinvio del voto in Burundi.

I manifestanti hanno occupato le strade di Bujumbura ogni giorno, e almeno venti di loro sono già stati uccisi. Anche dopo il fallimento del colpo di stato, da cui avevano preso le distanze, continuano a protestare. Il Burundi, intanto, sembra scivolare verso la guerra civile, se non verso un altro genocidio. La settimana scorsa più di cinquantamila persone hanno lasciato il paese nel timore dei prossimi sviluppi.

Se vogliamo fare pressione per costringere Nkurunziza a fare un passo indietro, il momento è ora. Presto potrebbe essere troppo tardi. A esercitare questa pressione dovrebbero essere prima di tutto i paesi africani e le loro istituzioni, ma di sicuro non guasterebbe se i principali donatori di aiuti al Burundi facessero sentire chiaramente la loro voce.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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