Gli elettori israeliani sono instancabili. Le elezioni del prossimo 1 novembre saranno le quinte in soli tre anni e mezzo, eppure l’affluenza alle urne si aggirerà probabilmente intorno al 70 per cento. Si tratta di un dato davvero notevole perché tutte e cinque le elezioni hanno ruotato intorno alla stessa domanda: Benjamin “Bibi” Netanyahu deve andare in prigione o deve diventare primo ministro?
Bibi è sotto processo per corruzione, frode e abuso di fiducia. Le prove a suo carico sono solide e il rischio è reale. Quello giudiziario è uno dei pochi sistemi della vita pubblica israeliana a non essere stato politicizzato: l’ex primo ministro Ehud Olmert è stato condannato a sei anni di carcere (ridotti a 18 mesi in appello) per le stesse identiche accuse che adesso pendono su Netanyahu.
L’ex premier ha beneficiato del fatto di essere un populista e ultranazionalista di destra proprio nell’epoca in cui questa inclinazione gode di evidente successo in politica (Trump, Bolsonaro, Orbán, Meloni, Modi e così via). Ma è comunque notevole che un singolo uomo possa trasformare il suo destino personale nella questione politica centrale di un paese da dieci milioni di abitanti.
Cambiare le leggi
Ma perché Netanyahu dovrebbe preoccuparsi di tornare al governo, visto che in Israele i premier in carica possono comunque essere incriminati, processati e perfino rimossi se riconosciuti colpevoli dai tribunali? Perché l’incarico è una sorta di assicurazione: un primo ministro condannato non può essere fatto dimettere finché non ha esaurito tutte le possibilità di appello, il che può richiedere molti anni.
Inoltre, sfruttando la sua maggioranza in parlamento, può cercare di cambiare o abolire quelle stesse leggi che è stato accusato di aver violato. Netanyahu non c’è ancora riuscito, perché tutti i governi israeliani sono coalizioni e non è riuscito a convincere i suoi partner politici ad accettare la sua idea. Questa volta, tuttavia, le cose potrebbe essere diverse.
Il 62 per cento degli israeliani oggi si considera di destra
I tentativi politici di far cadere le varie coalizioni guidate dal suo partito, il Likud, sono cominciati ancor prima della sua incriminazione formale alla fine del 2019, e da allora Netanyahu ha ottenuto una vittoria molto risicata in ciascuna delle successive tre elezioni. Dopo dodici anni consecutivi al potere, ha perso la quarta tornata nel 2021, con un margine altrettanto ristretto, e attualmente è all’opposizione.
Ma Netanyahu sta cercando di tornare in carica a novembre e stavolta potrebbe riuscire a formare una coalizione che metta fine alle sue grane legali. Il Partito sionista religioso (Rzp) è relativamente nuovo sulla scena politica, ma è già la terza formazione politica del paese.
Se una banda di criminali riesce a conquistare il potere politico, ci si aspetta che depenalizzi il crimine. Se l’Rzp entrasse in una coalizione vincente guidata dal Likud, il progetto che propone, ribattezzato “legge e giustizia”, toglierebbe il potere ai tribunali per darlo ai politici. E soprattutto cancellerebbe l’attuale legge contro la frode e l’abuso di fiducia.
Finale mozzafiato
Le figure di spicco dell’Rzp, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, in passato sono state figure ai margini della politica israeliana. Ben-Gvir è un notorio ammiratore del terrorista israeliano Baruch Goldstein, che nel 1994 uccise 29 palestinesi e ne ferì altri 125 a Hebron. Smotrich sostiene che “Israele dovrebbe essere governata secondo la legge della Torah”: una teocrazia come l’Iran, in altre parole. Ma la politica israeliana si è spostata a tal punto a destra da includere anche loro: il 62 per cento degli israeliani oggi si considera di destra.
Bibi non è un fanatico religioso, però le “riforme legali” di Smotrich farebbero decadere l’incriminazione di Netanyahu, che dunque non si farebbe alcun problema ad assegnare all’Rzp ministeri importanti, se i partiti di destra ottenessero abbastanza seggi alle prossime elezioni da poter formare un governo.
Andrà così? È impossibile dirlo. Il numero magico è 61 (su 120 seggi della knesset) e i partiti di destra, favorevoli a Netanyahu, oggi ottengono solo 59 o sessanta seggi nei sondaggi. I partiti ebraici dell’attuale coalizione ne otterrebbero 56, mentre i quattro partiti che rappresentano i cittadini arabi di Israele ne otterrebbero quattro (o forse nessuno, se non riusciranno a unirsi).
Come le precedenti quattro elezioni, anche questa è destinata a chiudersi con un finale mozzafiato. Potrebbe anche non essere l’ultima, perché la maggior parte degli israeliani vota sempre allo stesso modo. Nel frattempo, però, il mondo reale intorno a loro sta andando a rotoli.
I tre milioni di arabi palestinesi della Cisgiordania occupata sono vicini al punto di rottura. L’Autorità palestinese (Ap) ha perso ogni autorità. Il suo leader non eletto, Abu Mazen, 86 anni, è in cattive condizioni di salute e non ha un vice o un successore designato. Le città di Jenin e Nablus, nel nord della Cisgiordania, sono già di fatto fuori del controllo israeliano o dell’Ap. I giovani pesantemente armati della milizia Fossa dei leoni hanno il controllo delle strade, salvo quando l’esercito israeliano decide di aprire il fuoco, e potrebbero mancare poche settimane a una terza intifada su larga scala.
Ma nonostante tutto gli elettori israeliani, perennemente distratti dalla telenovela Netanyahu, sembrano in gran parte ignari di quel che li attende.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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