La prima donna, l’ultimo uomo
L’America è cinema, e nel grande schermo americano siamo tutti abituati a rispecchiarci e proiettarci da più di un secolo. Dunque non può stupire che nel kolossal della grande corsa alla Casa Bianca ci rispecchiamo anche noi europei, vedendoci ingigantiti tutti i segni della crisi politica e sociale che accomuna le democrazie occidentali di qua e di là dall’Atlantico. Del resto, i ruoli dei protagonisti sono così ben riusciti, anche e soprattutto nelle loro contraddizioni interne, da sembrare pensati a tavolino. Da una parte Donald il populista, businessman alla conquista del potere politico, maschio bianco alla riconquista del potere patriarcale, nativo all’assalto dello straniero, outsider all’arrembaggio del proprio partito; dall’altra parte Hillary la prima donna, politica navigata ma troppo d’establishment, femminista ma troppo moglie, progressista ma troppo neoliberal. Un plot perfetto per riconoscervi il presente e l’assai probabile futuro prossimo del vecchio continente: populismo contro establishment, fratture sociali contro rappresentanza, leadership personali contro partiti storici, xenofobia contro globalizzazione, muri contro società aperta. Se aggiungiamo il magistrale taglio inserito nella sceneggiatura al momento giusto dal capo dell’Fbi, il quadro si completa con lo scivolamento della divisione dei poteri in imprevedibile guerriglia tra i medesimi, altro guaio che infetta le democrazie costituzionali su tutt’e due le sponde dell’oceano. Di qua e di là il catalogo è questo, ed è quanto basta per lanciarsi nella facile profezia che di là come di qua non ci aspettano tempi facili, anche se, com’è auspicabile, il kolossal americano si concluderà, secondo la regola ferrea dell’happy end, con la magari non facile, magari risicata, magari al cardiopalma vittoria dei buoni sui cattivi, ovvero di Hillary, la prima donna, contro Donald, l’ultimo uomo.
Eppure, a un secondo sguardo, tra il vecchio e il nuovo continente le cose non sono così uguali, né seguono sempre la regola aurea del nuovo che anticipa il vecchio: con le merci, i soldi, le persone e i confini la globalizzazione rimescola anche i tempi, in un’inedita circolarità fatta tanto di sovrapposizioni e somiglianze quanto di scarti e differenze. Prendiamo il fenomeno Trump, tanto nuovo e stupefacente per gli osservatori americani quanto intriso di déjà vu per noialtri marchiati dal ventennio del Cavaliere: del quale Trump ricalca, com’è stato detto e ripetuto, tutto o moltissimo, dal tratto “alieno” del tycoon che piomba sull’arena politica (tratto che Berlusconi a sua volta ricalcava, a proposito di circolarità, da Ross Perot) alla fusione tra l’azione politica e il brand industriale, dal linguaggio rivolto alla pancia più che al cervello alla post-truth politics, dall’ostentazione della trasgressione fiscale all’uso e all’abuso della potenza sessuale come viagra del messaggio politico. Sì che quando i commentatori statunitensi si stupiscono delle identificazioni consce e inconsce che una figura fuori degli standard della moralità e della legalità come Trump riesce a suscitare, noi sappiamo purtroppo molto bene che queste identificazioni con il lato oscuro di un leader sono possibili, e possono essere molto tenaci.
Così come non ci stupisce, come ha scritto qualche giorno fa Jill Filipovic sul New York Times, che le donne statunitensi si siano paradossalmente trovate a pagare la vittoria femminista della prima candidata alla Casa Bianca con la campagna elettorale più sessista della storia. Le rivoluzioni non procedono mai linearmente e quella femminista non fa eccezione: il caso Trump negli Stati Uniti come il precedente Berlusconi in Italia dimostrano che quando gli uomini, cito ancora Filipovic, “non stanno al passo” del cambiamento femminile, la reazione maschile alla perdita di potere e identità può essere selvaggia. Tanto più se, come nel caso americano che in questo è diverso dal nostro, in questa perdita di identità le ragioni legate al mutamento di genere si mescolano a quelle di ordine demografico e razziale, e l’uomo bianco, assediato non solo dal vantaggio femminile ma dalle ex minoranze che diventano maggioranze e dai neri che si sono già presi la Casa Bianca, si sente davvero l’ultimo uomo: non più il metro di misura di tutti i subalterni, superiore per natura e vincente per definizione, ma un precario residuale e declinante. Uno spleen suprematista e razzista che non pare ancora altrettanto diffuso in Europa ma potrebbe diventarlo, come annuncia l’isteria xenofoba che fiorisce per ogni dove.
Passiamo facilmente, da qui, al principale fattore che fa la differenza tra la scena americana e quella europea. E che sta, lo si voglia o no, nell’eredità simbolica della presidenza Obama. Che essa sia in gioco a livelli ben più profondi della continuità di partito e di governo incarnata da Hillary Clinton, lo dimostra precisamente la virulenza dell’attacco di cui è stata ed è oggetto da parte di Trump e dei suoi, con i corollari della guerra ai neri e agli islamici, alla società multiculturale, al policentrismo in politica estera, al “politically correct” sul piano culturale. Il che, invece di condurre all’affrettata conclusione, molto in voga tra i commentatori di casa nostra, di un “fallimento” di Obama, dovrebbe piuttosto farci riflettere sulle modalità sotterranee e carsiche con cui sovente si forma e si esprime il conflitto nella società americana, meno incline di quella europea a dargli immediata rappresentazione politica. Se non bastasse l’esempio attuale dei gruppi di suprematisti, alt right, birtherist, cospirazionisti, antielitisti che hanno preparato l’exploit di Trump su canali extrapolitici come i siti Breitbart, si può tornare con la memoria ai network neocon e teocon che covarono a lungo sotto lo splendore progressista dell’impero clintoniano degli anni novanta, senza che in Europa nessuno ci facesse caso finché non divennero i pilastri ideologici di George W. Bush e della sua politica revanscista successiva all’11 settembre.
Il conflitto, d’altra parte, in questa lunga campagna elettorale non ha avuto solo la faccia di Donald Trump. Ha avuto anche quella di Bernie Sanders, troppo frettolosamente cancellata dalla inevitabile polarizzazione tra i due candidati degli ultimi mesi. Ma Sanders continua a contare, e non solo perché conteranno oggi, uno per uno, i voti dei suoi sostenitori, millennial soprattutto, che riuscirà o non riuscirà a dirottare su Hillary Clinton. Conterà in seguito, se proseguirà la sua battaglia per spostare a sinistra il Partito democratico e obbligherà Hillary a mantenere gli impegni programmatici presi con lui al lato della convention democratica di luglio. Conterà, soprattutto, se riuscirà a mantenere attivo il movimento che ha costruito, o meglio, cui ha saputo dare rappresentanza, non su base estemporanea ma grazie alla sedimentazione di una catena di aggregazioni e di lotte che vanno dalla mobilitazione per la prima elezione di Obama a Occupy Wall street a Black lives matter alle agitazioni nei campus universitari. Allo stato attuale, di là e di qua dall’oceano, l’unico “popolo” che aspiri a incanalare dichiaratamente a sinistra la rivolta contro gli effetti perversi della globalizzazione, della finanziarizzazione del capitale, del neoliberalismo. E forse l’unico che può riuscire nel miracolo di dare la sveglia alla sinistra europea, prima che a dargliela spunti anche da queste parti un altro Trump.