Dal Kitchen Theater di Ithaca, piccola città universitaria a nord di New York dove ho vissuto due anni fa, mi arriva una farewell song per Obama; comincia con un implorante “Obama, non potresti restare un po’ di più?” e finisce con un desolato “di che cosa verrà dopo di te non ho idea”. Le mie amiche che vivono negli Stati Uniti mi scrivono su Facebook che prepararsi al cambio della guardia del 20 gennaio è come fare un lutto, e che non sono ancora pronte. Un altro mio amico, attivista del Partito democratico, si consola ipotizzando che il prossimo presidente democratico nominerà Obama alla corte suprema, ma ci vorranno almeno quattro anni, e nel frattempo?

Nel frattempo, come direbbe Woody Allen, anch’io non mi sento tanto bene. Mi riesce difficile, per cominciare, tenere insieme questi sentimenti semplici, il dispiacere sincero di persone che a Obama non hanno risparmiato critiche ma che oggi sanno quanto lo rimpiangeranno, con certi giudizi politici freddi e affilati che circolano sui mezzi d’informazione italiani, un tripudio di dichiarazioni di fallimento che al presidente uscente concedono al massimo qualche risultato nella politica economica, per il resto che disastro: voleva unire l’America ma la lascia più divisa di prima, voleva ridare speranza alla classe media ma la classe media ha votato per Trump, ha preso il Nobel per la pace ma ha continuato a fare la guerra con i droni, ha ucciso Bin Laden ma col ritiro dall’Iraq ha aperto la strada al gruppo Stato islamico, ha sbagliato tutto in Siria consolidando le mire di Putin e riversando sull’Europa orde di rifugiati. I “realisti” che nel 2008 accusavano gli “entusiasti” di ingenuità e infatuazione per il primo presidente nero si prendono la rivincita: la doppia presidenza di Obama è stata un abbaglio “meramente simbolico”, ma i nudi fatti dicono che ha perso su tutta la linea, l’elezione di Trump è la verità di questo fallimento, e – va da sé – ne esce rafforzato il teorema per cui in politica conta solo il cinismo.

I nuovi termini della questione
Di “meramente” simbolico in verità non c’è niente, come fa notare Ta-Nehisi Coates su The Atlantic (e su Internazionale nel numero del 20 gennaio); e la stampa americana, meno ossessionata dalla smania di distillare la dimensione politica da quella del vissuto, dell’immaginario e della cultura di massa, sembra saperlo più della nostra. Non che manchino, anche negli Stati Uniti, i bilanci negativi del doppio mandato di Obama, non solo nel campo repubblican-trumpiano ma anche in quello della sinistra radicale: sul numero speciale confezionato da The Nation, per esempio, all’affettuosa elegia di Katha Pollit per la famiglia afroamericana alla Casa Bianca fa da contraltare il pezzo di Eric Foner, autorevole storico ed editorialista del settimanale, che esprime la delusione di quella sinistra radicale che nel 2008 aveva riposto su Obama molte speranze per poi prenderne le distanze a causa delle sue promesse mancate.

Ma colpisce, per esempio, l’articolo di Michael Eric Dyson con cui la New York Times Sunday Review del 15 gennaio apre il suo dossier, anch’esso plurale nei giudizi, sugli anni di Obama. Dyson nomina a chiare lettere il fantasma che ha accompagnato la presidenza di Obama nella comunità afroamericana, cioè la paura del destino di morte che prima di lui aveva ineluttabilmente colpito ogni leadership nera. “L’America nera ha trattenuto il fiato ogni secondo della presidenza Obama”, e dunque altro che irrilevanza del simbolico: “Quali che siano le critiche che gli si possono muovere, nessuno può negare l’importanza della sua stessa presenza nello studio ovale”, e della sua stessa sopravvivenza. Che tuttavia da quel destino non lo ha salvato del tutto: Dyson interpreta come una “messa a morte simbolica” di Obama il fatto che a succedergli sia giusto “il più sguaiato portavoce” della macchina dell’odio razzista scatenata senza tregua contro di lui, fino alla messa in dubbio del suo luogo di nascita. La posta simbolica, dunque, è stata e resta altissima: “L’ascesa di Obama non è stata solo il completamento della traiettoria dell’eccezionalismo americano. È stata la vittoria della vita di un nero, cresciuta in una comunità in cui la morte è la norma”.

L’argomentazione, durissima, di Dyson ci porta al cuore del catalogo di questioni che compongono il bilancio della presidenza Obama: la questione della razza e la resa dei conti sul “colore” che si è consumata con l’elezione di Trump. Occorre, qui come su tutto il resto, una mossa preliminare: sganciare la valutazione del doppio mandato del primo presidente afroamericano dalla visione lineare e progressista della storia che è sempre in agguato nei giudizi politici. L’idea che l’ingresso di un nero alla Casa Bianca significasse di per sé la fine della questione razziale era un’idea ingenua (parente di quella per cui il patriarcato si sconfigge mandando più donne in parlamento), e non è mai appartenuta al fronte degli “entusiasti” del 2008. Era evidente fin da allora, al contrario, che quell’ingresso, se da un lato agiva da potenziamento simbolico della comunità nera, dall’altro non solo non garantiva di per sé la fine di ogni discriminazione, ma avrebbe potuto scatenare una reazione bianca feroce, come difatti è stato: il simbolico non ha mai una sola faccia, e il mutamento storico non è mai lineare. Ma il backlash bianco di oggi non annulla l’effetto dirompente dell’ascesa di Obama allora. Viceversa, lo conferma, configurandosi come reazione a un evento che una parte consistente dell’elettorato bianco non aveva mai digerito, e come scongiuro del fantasma che lo assilla: il divenire minoranza dei bianchi in un’America ineluttabilmente sempre più multicolor.

Bisognerebbe infatti interrogarsi sui nuovi termini che la questione della razza ha assunto in questi otto anni, sia sul piano strutturale sia in virtù della stessa narrativa obamiana. Al mutamento della mappa demografica degli Stati Uniti, dove la linea black si somma sempre più con quella brown degli immigrati ispanici, Obama ha risposto rideclinando la questione delle differenze razziali in termini anti-identitari. Pur collocandosi esplicitamente nel solco della tradizione di lotta per i diritti civili degli afroamericani (basta riascoltare “La marcia non è ancora finita”, il discorso pronunciato a Selma il 7 marzo 2015, a cinquant’anni dalla marcia di Martin Luther King e a poche ore dall’uccisione di un giovane nero da parte della polizia di Madison), Obama ha costantemente mirato a spostarne l’asse dal riconoscimento identitario all’inclusione a pieno titolo dei neri, come di tutti gli altri non bianchi, nell’eccezionalismo americano, nell’american dream del continuo allargamento della frontiera della libertà, dei diritti, della democrazia. Per quanto questo spostamento sia stato criticato dall’ala più radicale della stessa comunità nera, è innegabile che esso ha aperto la possibilità di una politica delle differenze che non si rovesci, e non si blocchi, in fissazione identitaria, e di cui Obama stesso – figlio di un’americana e di un kenyota, non-bianco ma non-del tutto-nero, educato negli Stati Uniti ma segnato dalle radici africane, come racconta in quel libro magnifico che è I sogni di mio padre – è stato perfino fisicamente il miglior testimonial possibile. Paradossale è piuttosto – e fa parte del mondo capovolto in cui ci sospinge l’elezione di Trump – che la bandiera dell’identità sia oggi impugnata dal neosuprematismo bianco, in un rovesciamento delle parti tra minority e majority nation che non annuncia niente di buono.

Senza interlocutori all’altezza
Cruciale sulla questione della razza, questa rotazione postidentitaria non è meno importante nella valutazione della controversa politica estera di Obama, attaccata da sinistra perché troppo continuista nell’uso della guerra a dispetto delle iniziali promesse pacifiste, da destra perché viceversa troppo morbida, riluttante, perfino complice del declino della potenza americana e della sua funzione ordinatrice del mondo. Ma anche qui, la sola contabilità geopolitica del “disordine” mondiale attuale, che Trump promette di cavalcare con conseguenze imprevedibili, non rende conto né delle ragioni né degli effetti di lungo periodo della visione obamiana. Obama ereditava nel 2008 dall’amministrazione Bush e dai suoi think-tank neoconservatori non solo la scia violenta delle guerre in Afghanistan e in Iraq scatenate in reazione all’11 settembre, ma anche la retorica identitaria dello scontro di civiltà e dell’esportazione forzosa della democrazia che le supportava: una guerra culturale non meno carica di effetti globali di quelle militari, che pretendeva di chiudere il secolo americano gonfiando la hybris della nazione uscita trionfalmente dalla guerra fredda ma già destinata a un relativo declino dalle potenze emergenti nello scenario globale.

Rispetto a questo quadro, la discontinuità di Obama è stata radicale. Non la negazione ma l’assunzione del tema del declino americano; non l’evocazione della hybris a stelle e strisce ma la prospettiva di un multilateralismo capace di contenerla; non lo scontro di civiltà identitario contro il mondo islamico ma il tentativo del riconoscimento reciproco e del dialogo delineato nel famoso discorso del Cairo; non l’esportazione armata della democrazia americana ma l’investimento sui suoi valori inclusivi senza pretese egemoniche sulle culture altrui; non l’enfatizzazione della minaccia terroristica ma la ridefinizione dei mezzi per contrastarla; non il ricorso automatico alla reazione muscolare di Washington alle crisi come quella siriana ma la ricerca – talvolta, come in Siria, mancata – di vie negoziali; non la chiusura preventiva ma la collaborazione con le potenze emergenti come la Cina.

Si possono, è vero, enumerare uno per uno i fallimenti parziali o totali di questa visione del mondo (sulla quale, va anche detto, Obama non ha trovato in nessuna parte del mondo, l’Europa in primis, il supporto di interlocutori all’altezza). Si può, e si deve, sottolineare il paradosso per cui anche all’estero, come all’interno, questa visione anti-identitaria di un mondo multiculturale ma interdipendente ha dovuto scontrarsi con il rinascere ovunque di piccole patrie, nazionalismi fanatici, tribù postnazionali. Ma non si può negare che questa fosse la strada da intraprendere per tentare di imprimere alla globalizzazione una direzione politica – e cosmopolitica –, sottraendola al dominio assoluto del mercato e della forza militare. Un tentativo non meno cruciale di quello, che a Obama chiunque riconosce, di contenere in politica interna gli effetti più disgreganti del capitalismo globale (con Obama il termine “disuguaglianze” entra per la prima volta nel lessico politico americano) riabilitando l’intervento pubblico in economia.

Cosa finisce
C’è chi sostiene, in Italia Giulio Tremonti, che con l’ingresso di Trump alla Casa Bianca finisce la globalizzazione. È una profezia azzardata, tanto più nella relativa imprevedibilità delle mosse del nuovo presidente. Più facile è dire quello che finisce con l’uscita di Obama: non la globalizzazione, ma una certa visione politica di un suo possibile governo, basato sull’abbattimento delle barriere identitarie – razziali, etniche, culturali, sessuali – e sulla consapevolezza della reciproca interdipendenza, all’interno e all’esterno dei confini nazionali. Il mondo globale resta in mano da un lato ai fondamentalisti del mercato senza frontiere, dall’altro ai piccoli e grandi neosovranisti pronti a erigere nuovi muri e tracciare nuovi confini. Si vedrà presto se, quanto e dove l’eredità di Barack Obama si rivelerà un lascito “meramente simbolico” o un patrimonio necessario per i destini della politica mondiale.

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