È quando Oliver finalmente cede al sentimento inaggirabile di Elio che gli dice “Chiamami col tuo nome, io ti chiamerò con il mio”, mettendo così la propria identità nelle mani dell’altro e accogliendo quella dell’altro nelle proprie. Cessione d’identità, dono d’amore: perché cosa c’è di più proprio del nome, e cosa c’è di più espropriante dell’amore? Il desiderio, diceva Lacan, è sempre il desiderio dell’altro; e l’amore non è possesso di una cosa ma espropriazione di sé; non è rigonfiamento ma emorragia dell’io. In un tempo che parla d’amore e di sesso con il lessico sgrammaticato del consumo, della molestia e della violenza, è questo il messaggio controcorrente, in qualche modo sovversivo, del film di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome, candidato a quattro Oscar – miglior film, miglior attore protagonista (Thimothée Chalamet), migliore sceneggiatura non originale (di James Ivory) , migliore canzone originale (di Sufjan Stevens) – e da oggi, finalmente, nelle sale italiane, dopo un’accoglienza trionfale in quelle americane, un bottino di riconoscimenti della critica fin dall’anno scorso al Sundance Film Festival, a Berlino, a Toronto, e tre nomination ai Golden Globe del 7 gennaio scorso.
Terzogenito – dopo Io sono l’amore e A bigger splash - di quella che Guadagnino chiama la sua “trilogia del desiderio” – e ultimo film “sui ricchi”, annuncia il regista, Chiamami col tuo nome sposta la telecamera dall’amore eterosessuale a quello omosessuale, e dal corpo androgino di Tilda Swinton, protagonista dei primi due, all’attrazione fatale fra il corpo acerbo del giovanissimo Thimothée Chalamet e quello bello e possibile di Armie Hammer. Ma è uno spostamento per modo di dire. Tratto dall’omonimo e magnifico romanzo di André Aciman, il film è tutto fuorché un gay-movie “di genere”. Non afferma un’identità, non rivendica una scelta, non indica un approdo: in quella stagione aperta e incerta che è l’adolescenza, quando tutto è possibile e tutto è terribilmente difficile, il desiderio ti prende dove non te l’aspetti, spiazza quello che sei o che credi di essere, ti porta dove non sai di volere andare. Non è una scelta né un orientamento né un destino, è l’imprevisto che muove le cose e le dispone in una nuova combinazione, come quando si alza il vento e il mosaico del panorama d’improvviso cambia.
Un’estate diversa
Tutto sembra previsto e prescritto quando Oliver, viso da statua greca su corpo scolpito New England, arriva a casa Pearlman per la sua vacanza-studio, uno dei tanti post-doct che il padre di Elio ospita un’estate dopo l’altra (“ma questo pare un po’ meglio di quello dell’anno scorso”, nota subito una delle ragazze che frequentano la casa). Elio studia musica, fa il filo alle sue coetanee, va in bicicletta, nuota e “aspetta che l’estate finisca”, come ogni anno. Ma tutto prende, inaspettatamente, un’altra piega. Nulla di immediato però, nulla di travolgente. Il desiderio che spiazza si insinua a poco a poco, per i pertugi dell’anima stretti come la porticina che si infila in bici per entrare nella grande villa: impressioni, smentite, sguardi, dubbi, tormenti, un’eventualità che può realizzarsi, o forse no, che può esplodere e tornare indietro. L’importante però è viverla, non chiuderle le porte, perché, come spiegherà il padre di Elio – rovesciamento dello stereotipo per cui i padri, al cinema, sono per definizione ostili all’omosessualità dei figli -, “soffochiamo così tanto di noi per guarire più in fretta che a trent’anni siamo prosciugati, e ogni volta che ricominciamo con qualcuno diamo sempre di meno”. Esiste, un padre così? O una madre così, che guarda, ascolta, capisce prima degli altri, e si astiene dall’intervenire?
Sono esistiti, sembra dire Guadagnino quando ricorda che la vicenda si svolge nel 1983, e “l’83 fu un anno di svolta”, con l’ascesa di Craxi che chiude il ciclo del sessantotto, quello in cui “i genitori avevano un sapere emotivo da trasmettere ai figli”. In quel di Crema dove il regista ha scelto da tempo di vivere, casa Pearlman concentra, non si sa quanto realisticamente ma poco importa, i tre ingredienti necessari dell’estetica (esplicitamente bertolucciana, e in questo film più bertolucciana che mai) di Guadagnino: “empatia, passione, sapere”. Non c’è l’uno senza l’altro, perché il desiderio è alla fin fine desiderio d’essere, e alla fin fine, come diceva Deleuze, è sempre con il mondo che facciamo l’amore. O come diceva Laura Betti prima di lasciarci, senza questi ingredienti “un paese perde la grazia”, che è precisamente quello che è successo all’Italia degli ultimi, disgraziati decenni.
Guadagnino ci rimette davanti questa grazia perduta, e ritrovata. Chiamami col tuo nome arriva nelle nostre sale dopo un percorso trionfale all’estero: oltre alle tappe già ricordate, vari passaggi a Sydney, Helsinki, Zurigo, Londra, New York, Mumbai, Chicago, due Gotham Awards, tre premi (fra i quali la miglior regia) della Los Angeles Film critics association, due del Usa National board of review , sei nominations ai Film independent spirit awards e altro ancora. Abbastanza per aprire gli occhi alla stampa mainstream italiana, da sempre assai tiepida nei suoi confronti. E, si spera, per chiudere definitivamente il giochino di società su Guadagnino erede del grande cinema italiano di Bertolucci e Visconti e Rossellini, sì, ma troppo snob, troppo internazionale, troppo hollywoodiano per competere con il cinema italiano che fa cassa oggi. Polemiche che contano quanto i dazi di Trump nel mercato globale. Nella geo-filosofia del cinema mondiale brilla una stella, è nata a Palermo, gira nel mondo e noi facciamo il tifo perché brilli a lungo e di più.
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