Sono state elezioni europee, e andrebbero valutate con criteri europei. Il criterio che va per la maggiore è che l’europeismo ha retto contro l’onda d’urto sovranista, grazie anche al balzo in avanti dei Verdi (soprattutto in Germania e in Francia) e dei liberaldemocratici, che compensa le perdite del Ppe e del Pse, ovvero dell’asse che per quindici anni ha tenuto le redini dell’Unione. Laddove la galassia sovranista avanza, ma non tanto da prefigurare un’alternativa possibile, malgrado il trionfo di Matteo Salvini in Italia, di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage nel Regno Unito.

Tutto vero, eppure tutt’altro che rassicurante: il bicchiere mezzo pieno si può ribaltare facilmente in un bicchiere mezzo vuoto. Se è vero che i sovranisti, oltre a non avere sfondato, sono divisi al loro interno, dall’altra parte non è chiaro che cosa unisca gli europeisti sul piano progettuale e programmatico. Eppure la costruzione europea oggi non può essere soltanto difesa dalle spinte disgregatrici: perché continui, va ripensata e rilanciata su nuove basi, con precisi segnali di discontinuità rispetto alla governance a trazione tedesca che l’ha caratterizzata nell’ultimo quindicennio. Significa rigettare le sue basi ordoliberali, rinnegare la politica e l’etica dell’austerità, mettere la lotta contro le disuguaglianze al primo posto dell’agenda, affrontare il problema delle migrazioni nel suo spessore epocale ineludibile. E ancora: riavvolgere il nastro di una costruzione dell’Unione basata sulla rimozione degli effetti della fine dell’Unione Sovietica, e di una annessione strumentale e illusoria dei paesi dell’est. E mettersi di fronte al gigantesco dato storico-politico di una crisi profonda, radicale, della democrazia europea.

Torsioni illiberali
Che è precisamente il dato che emerge da queste elezioni. I sovranisti non sfondano al livello continentale, ma dove sfondano, o avevano già sfondato, al livello nazionale, la democrazia subisce forti torsioni illiberali: vale in Ungheria, in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Italia. In Francia il sorpasso di Marine Le Pen è la ciliegina sulla torta di una crisi di governabilità già rivelata sintomaticamente dal movimento dei gilet gialli. Nel Regno Unito la Brexit ha innescato un processo accelerato di devastazione di un modello politico e istituzionale che pareva granitico. E dappertutto, Germania compresa, il declino dei partiti tradizionali – e segnatamente della sinistra, moderata e radicale, fatta salva la Spagna – non potrà non comportare altre scosse telluriche, come la storia italiana degli ultimi venticinque anni dimostra paradigmaticamente.

La speranza è che queste scosse inneschino un processo di invenzione politica che nella Ue degli ultimi quindici anni è mancato: che sotto la pressione di una contingenza instabile l’Europa torni a essere quel laboratorio politico che non è riuscita a essere sotto la religione della stabilità, monetaria e istituzionale. Perché questo accada è necessario che la riforma della governance economica si saldi con la reinvenzione della democrazia: diversamente, il pallino delle rivendicazioni popolari contro le disuguaglianze e l’insicurezza resterà inevitabilmente in mano ai sovranisti, che le saldano a soluzioni illiberali quando non autoritarie, e comunque tradizionaliste quando non reazionarie. Infatti, e per venire all’Italia, faceva un certo effetto nella notte dei risultati vedere Matteo Salvini perorare i diritti dei cittadini agitando il crocifisso e invocando il cuore di Maria. Immagine nitida della saldatura tra questione sociale e valori tradizionali che è il nocciolo del progetto sovranista.

L’instabilità è garantita, e il gioco può riaprirsi anche per il Pd o un ricostituendo centrosinistra

Questo progetto ha evidentemente conquistato l’Italia, allo stato attuale delle cifre. Che ci consegnano un paese collocato a destra come mai prima nella storia repubblicana. Non è solo il risultato roboante della Lega, che raddoppia i voti in termini percentuali rispetto a un anno fa, ne guadagna tre milioni in termini assoluti, completa la trasformazione in partito nazionale espandendosi anche al sud ed espugnando i luoghi simbolici di Lampedusa, Riace e Rosarno. È la crescita di Fratelli d’Italia, incomprensibile se non in una tendenza generale di spostamento a destra. È il tracollo dei cinquestelle, che dimezzano i voti del 2018 in percentuale e ne perdono sei milioni in assoluto, pagando un prezzo salato al loro pur goffo e tardivo tentativo di ricollocarsi verso sinistra.

Ed è il risultato di un Pd legittimamente confortato da un’inversione di tendenza in termini percentuali, che tuttavia non comporta un guadagno di voti assoluti. È, infine, l’assenza in Italia della variabile verde, che altrove ha incanalato il voto giovanile, nonché l’ennesima, e stavolta rovinosa, débâcle della sinistra radicale, che non capitalizza la pur significativa mobilitazione anti Salvini delle ultime settimane.

Per quanto in parte smentito dal voto amministrativo, e per quanto relativizzato da un’astensione del 44 per cento, il quadro è fosco, e più dal punto di vista sociale che dal punto di vista politico. Sul piano politico, non è affatto detto che si stabilizzi: per stabilizzarlo Salvini dovrebbe risolversi a resuscitare il centrodestra Berlusconi compreso, mentre continua a giurare lealtà ai cinquestelle i quali però non potranno reggere a lungo la sua prevedibile pretesa di prendere il comando e dettare l’agenda, salvo disfarsi del tutto. L’instabilità è garantita, e il gioco può riaprirsi anche per il Pd o un ricostituendo centrosinistra.

La domanda vera però, già adombrata qui da Michael Braun, è un’altra, e riguarda la sequenza di “bolle” elettorali che contrassegna la democrazia italiana da alcuni anni in qua, con il primo exploit dei cinquestelle nelle politiche del 2013 e il secondo in quelle del 2018 inframmezzati da quello di Renzi nelle europee del 2014 e seguiti da questo di Salvini. Volatilità del voto e deperibilità della leadership non bastano a spiegare questi picchi, né convince del tutto la tesi della tendenza degli italiani ad affidarsi all’uomo della provvidenza.

Più che un affidarsi, c’è qui qualcosa che somiglia a uno sfidare la sorte puntando sul massimo rischio: una sorta di compulsività del giocatore che tenta il tutto per tutto, e tanto più alza la posta quanto più alta è la promessa del leader di turno di fare tabula rasa del passato e del presente. La psicoanalisi lo definirebbe un comportamento perverso, basato su un godimento mortifero. Non riusciremo a sconfiggerlo se non sostituendolo con un desiderio vitale.

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