Mentre vago frastornata fra talk show e giornali che da ventiquattro ore alternano il finto stupore per la giravolta annunciata di Matteo Renzi al rimestio nei perché e percome del testacoda agostano di Matteo Salvini, mi capita tra le mani un articolo di Andrea Barchiesi su Prima comunicazione intitolato “Il lato oscuro del gradimento”, piccolo raggio di luce nel coro di contorno alle magnifiche sorti della leadership “narcinista” (ovvero narcisista e cinica, copyright Massimo Recalcati) data da tutti al giorno d’oggi per trionfante e invincibile.
L’autore spiega dove casca l’asino dei sondaggi e delle previsioni basati sulla misurazione del gradimento dei leader: casca, banalmente, sul rovescio del gradimento, ovvero sul vento contrario che talvolta si mette a spirare ostacolando il vento in poppa dei leader suddetti. Elementare, eppure nessuno sembra farci più caso: c’è il consenso ma c’è anche il dissenso; e il dissenso conta e fa il suo lavoro nella delegittimazione dei capi osannati, anche se i sondaggi non lo registrano e non lo monitorano.
È quello che è capitato anche a Salvini: “È avanzato sospinto da venti forti, ascesa trionfale”, ma a un cero punto, mentre l’onda positiva continuava a salire, “si è sviluppata un’onda di contrasto” e di resistenza, prima sui social network, poi nelle piazze (“compaiono Zorro e striscioni”). E quando l’onda negativa monta, “oltre un certo livello si arriva al collasso di autorevolezza”. E con l’autorevolezza collassano ovviamente i leader.
La crescita del dissenso
Tiro un respiro di sollievo, perché da settimane mi chiedo come mai, nelle più varie risposte che vengono date all’ossessivo quesito sul perché Salvini abbia aperto la crisi di governo all’apice dei suoi indici di gradimento, manchi la risposta più ovvia, che non spiega tutto ma qualcosa forse sì: perché vedeva e sentiva che il vento stava cambiando, o quantomeno che stava montando un vento contrario al vento in poppa di cui aveva goduto fino a quel momento. E probabilmente questa percezione non è stata senza effetti nell’accelerazione delle sue decisioni.
A chiunque sia capitato, come alla sottoscritta, di stare in piazza a contestare il ministro dell’interno, o di sostenere la resistenza delle ong ai suoi decreti fascistoidi, o di appendere uno striscione a un balcone sfidando le forze dell’ordine schierate per farlo sparire, era chiaro fin dalla primavera scorsa che il dissenso verso Salvini andava crescendo almeno quanto il consenso, mostrando la vulnerabilità del capopopolo e appannandone l’immagine di invincibilità costruita dai media mainstream.
Due fotografie dall’album dei mesi scorsi per rendere l’idea. La prima, 29 giugno, Lampedusa: Carola Rackete scende dalla Sea Watch 3 sul molo dell’isola, dove ha deciso di sbarcare nella notte forzando i divieti del ministro dell’interno italiano, ma obbedendo alla legge del mare e all’obbligo di portare in salvo i naufraghi. È agli arresti e il ministro le dà della sbruffoncella, della crucca comunista viziata, della criminale mentre sul molo alcuni razzisti le augurano uno stupro etnico di gruppo. Eppure in quel momento è chiaro che la calma determinazione della comandante sta stravincendo sull’isteria muscolare del capitano, e ancor più chiaro lo diventerà quando la gip di Agrigento darà ragione a Rackete mettendo nero su bianco che salvare i profughi non è un capriccio ma un dovere. Salvini risponderà gonfiando ulteriormente i muscoli, giurando vendetta alla magistratura e inasprendo le pene per le ong nel decreto sicurezza bis. Le armi del potere sono dalla sua parte, il consenso xenofobo alla sua politica cresce, eppure a occhi attenti è evidente che la sua immagine è lesionata: l’azione di Rackete l’ha reso vulnerabile.
Seconda foto, 11 agosto, lungomare di Soverato: reduce dai fasti del Papeete Beach, Salvini sbarca sulle coste calabresi per un tour di conquista del sud, ma viene accolto da una manifestazione di protesta che sommerge letteralmente il suo comizio; la stessa scena si ripete l’indomani a Catania e altrove. Il momento è cruciale: il ministro si è appena sfilato dal governo e invoca nelle piazze pieni poteri, ma la crisi non è ancora parlamentarizzata e il gioco sembra tutto nelle sue mani. Eppure, a chi partecipa a quella manifestazione e lo vede pronunciare come una cantilena un discorso che nessuno può ascoltare appare già un pallone alquanto sgonfiato.
Domanda: perché non solo i sondaggi, come scrive l’articolo da cui sono partita, ma neanche i mezzi di informazione mainstream né la politica istituzionale sono in grado di monitorare, registrare e tenere nella debita considerazione questi segnali di incrinatura del consenso plastificato dei leader? E perché quando i leader collassano, le crisi esplodono e i governi cambiano di quei segnali non resta traccia alcuna nella narrazione mainstream dei fatti?
Si può rispondere in vari modi, e l’uno non esclude l’altro. Si può evidenziare, come fa Barchiesi, che non disponiamo ancora di tecnologie in grado di cogliere “il lato oscuro del gradimento”, ovvero il dissenso che cova sotto il consenso illuminato – e coccolato – dalle luci della ribalta. Si può, e si deve, aggiungere che non è tanto questione di tecnologia ma di politica, e che la politica – di sinistra, nella fattispecie – ha perso i sensori per cogliere quello che si muove nella società spesso con più intelligenza e rapidità di quello che (non) si muove sulla scena istituzionale. Si può sommessamente suggerire infine una terza risposta, che nulla toglie ma qualcosa aggiunge a quelle precedenti.
Facciamo un passo indietro, in un’era politica precedente. Giusto dieci anni prima che Carola Rackete – e con lei altre come lei: la comandante della Juvena Pia Klemp, la portavoce di Mediterranea Alessandra Sciurba, l’ideatrice della “balconite” anti-Salvini Jasmine Cristallo e migliaia di attiviste impegnate in analoghe pratiche di resistenza – comparisse sulla scena, era capitato che altre donne, Veronica Lario in testa, squarciassero il velo sul regime sessuale che sottostava al regime politico di Silvio Berlusconi. Anche in quel caso, Berlusconi era all’apice del suo consenso, anche in quel caso la presa di parola di quelle donne, e il movimento di donne che ne conseguì, lo rese improvvisamente vulnerabile, anche se ci vollero mesi prima che su questa vulnerabilità si inserissero le dinamiche economico-politiche necessarie per farlo cadere. E anche in quel caso, di quella decisiva azione di demolizione femminile dell’immagine invincibile del leader non è rimasta traccia nel racconto mainstream della fine di Berlusconi.
La storia si ripete diversa ma uguale anche oggi. Non racconta, sia chiaro, di un eroismo o di una superiorità morale “di genere”. Racconta della rotta di collisione perfino preterintenzionale in cui entrano le leadership muscolari e narcisiste maschili con la capacità sovente femminile di fare politica a partire da sé, di esporsi al rischio di dire la propria verità, di mettere a nudo il re di turno senza complessi. L’incapacità della politica ufficiale di monitorare il fattore D come dissenso ha forse una certa parentela con la sua incapacità di vedere il fattore D come donna. Sarebbe il caso di guardarlo, ascoltarlo e prenderlo sul serio laddove si manifesta, invece di ingabbiarlo, con la complicità delle stesse donne arruolate nella politica ufficiale, in improbabili conteggi di quote e nelle promesse paritarie che lasciano sempre il tempo che trovano.
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