Trovo molto difficile restare in silenzio sugli ultimi fatti successi in Nicaragua. Con prudenza e per non deludere una certa sinistra, finora mi ero limitato a esprimermi in circoli molto ristretti. Ma sento che è ora di farlo pubblicamente. Per me è doloroso riconoscere la deriva autoritaria di Daniel Ortega e del suo governo. Non invano, alla fine degli anni settanta ho aderito alla solidarietà con la rivoluzione sandinista, ho viaggiato in questo paese, di cui ormai mi sento parte, non meno di 25 volte, vivendoci e lavorandoci per un po’ come giornalista, e mi sento sandinista intellettualmente e sentimentalmente.

Quindi, almeno finora, sono stato anche complice di un atteggiamento di sinistra che consiste nel mettere a tacere, silenziare e voltare le spalle a realtà che non ci piace criticare perché pensiamo, erroneamente, che facendolo danneggiamo la nostra causa. Al contrario, dovremmo essere partecipi del principio etico secondo cui la verità è sempre rivoluzionaria. In realtà, ciò che ci fa male è coprire e giustificare le azioni della sinistra che devono essere criticate da altre persone di sinistra. Da una posizione sana, dovremmo essere interessati a chiarire la verità, per rafforzarci politicamente e moralmente.

Nel momento in cui scrivo questo articolo le cifre fornite da Amnesty international parlano di più di ottanta di morti e oltre 800 feriti, molti dei quali a causa di colpi di proiettile. Dati che coincidono con quelli offerti dal Centro nicaraguense per i diritti umani (Cenidh), che indica anche un numero indeterminato di persone scomparse. Le cifre ufficiali si collocano su dati simili. Questo massacro è il risultato di un dispiegamento repressivo della forza la cui responsabilità politica ricade sul presidente Daniel Ortega. Se un governo di sinistra spara a chi protesta, come ci differenziamo dalla destra?

Ortega e la moglie Rosario Murillo, circondati da un gruppo di fedelissimi, esercitano il potere in forma non democratica

Ma che succede in Nicaragua? Perché così tante persone si sono ribellate? Daniel Ortega è tornato al potere nel 2007, quasi vent’anni dopo la sconfitta contro l’Unión nacional opositora (conservatrice) che nel 1990, con Violeta Chamorro come candidata, vinse le prime elezioni dopo gli anni dei sandinisti al potere (1979-1990). Ortega ha dovuto fare un lungo viaggio politico e personale per riottenere finalmente la presidenza e il governo, dopo aver perso tre elezioni presidenziali dal 1990. La sua vittoria deve molto all’appoggio del cardinale Miguel Obando y Bravo, che in cambio ha ottenuto dai deputati del Fronte sandinista di liberazione nazionale (Fsln) l’abrogazione della legge sull’aborto terapeutico, così che il Nicaragua è uno dei cinque paesi al mondo che lo proibiscono.

Subito dopo aver prestato giuramento come presidente, Ortega avrebbe dovuto aprire un processo di riconciliazione interna nell’Fsln ma invece, una volta al potere, ha preso le distanze da molti dei suoi leader. Su nove comandanti che formavano la direzione nazionale del fronte durante il governo rivoluzionario molti si sono allontanati dalle sue politiche. Altre personalità, tra cui la poeta e scrittrice Gioconda Belli e lo scrittore Sergio Ramírez, guidano l’ingente numero di donne e uomini che pur rivendicando il loro sandinismo hanno preso le distanze da un Fsln di proprietà della potente coppia composta da Ortega e dalla vicepresidente e moglie Rosario Murillo che, circondata da un gruppo di fedelissimi, esercita il potere in forma non democratica.

La coppia sembra voler stabilire una dinastia al potere, al punto che i propri figli si occupano in modo irregolare delle responsabilità dello stato con un mandato autocratico, arrivando a sostituire i ministri in viaggi ufficiali. La verità è che tutto il potere è concentrato nella famiglia Ortega-Murillo e in un piccolo gruppo di persone. Come afferma il guerrigliero storico Henry Ruiz, “non esiste più un’ideologia, non c’è misticismo, non ci sono regole, non c’è dibattito, non c’è niente”. Ma questo vuoto non impedisce che con il linguaggio antimperialista Ortega continui a mantenere un significativo ascendente su gran parte della società. In parte grazie ad appoggi che risalgono ai tempi della rivoluzione, in parte con una pratica di clientelismo che si nutre di aiuti sotto forma di piccoli lotti agricoli, lamiere di zinco, biciclette e altre donazioni assicurate finora con i soldi provenienti dalla generosità petrolifera del Venezuela. Inoltre, favori personali, premi e punizioni, che vengono concessi con un controllo quotidiano dalla vicepresidente Murillo, che è riuscita a creare una forza sociale che presta i suoi servigi al governo sotto la formula della partecipazione dei cittadini.

Dobbiamo tornare alle sconfitte elettorali di Ortega contro Violeta Barrios de Chamorro, Arnoldo Alemán ed Enrique Bolaños, per capire come si è arrivati al momento presente. Devo dire che non mi è mai piaciuto l’avvicinamento interessato al cardinal Obando per ottenere almeno la neutralità della chiesa cattolica, poiché portava con sé il prezzo di scelte politiche confessionali. Ortega ha cominciato a frequentare la cattedrale, da cui si è scusato con il popolo del Nicaragua per gli eccessi della rivoluzione, portandosi dietro, nelle messe in tv, il potente capo dei servizi segreti Lenin Cerna. È così che Daniel Ortega ha cominciato a fabbricare la sua immagine di uomo devoto, ben guidato dalla moglie che più volte ha pubblicamente espresso il suo rifiuto dell’aborto in qualsiasi circostanza. Da questa conversione è nato il suo grande motto politico che è ancora in vigore: Nicaragua cristiano e socialista. Un socialismo confessionale che non smette di essere un’originalità surreale.

La conversione non è stata solo religiosa. Henry Ruiz, il veterano della guerriglia in montagna, lo denuncia: “All’inizio pensavamo che il suo programma fosse rivolto a un’economia di sviluppo nazionale. Era un miraggio. Andò quasi subito alla scuola di business Incae per assicurare ai grandi uomini d’affari nazionali che avrebbe rispettato i loro affari e promosso le privatizzazioni. Voi pensate all’economia e io alla politica, disse loro”. Ma la verità è che il paese resta prigioniero di un problema strutturale che mantiene l’80 per cento della popolazione attiva in un’economia informale. Niente sta cambiando, se non in peggio, in un’economia sottoposta alle richieste del Fondo monetario internazionale, e in cui quindi aumentano le disuguaglianze sociali.

Ma per l’indignazione di una folla ci sono molti motivi. Per prima cosa, le persone di sinistra devono aprire gli occhi e vedere la vera politica di Daniel Ortega. L’ex guerrigliera Monica Baltodano sottolinea alcuni elementi:

  • Non siamo in un secondo stadio della rivoluzione, non si stanno realizzando trasformazioni che consolidano in Nicaragua un sistema di giustizia sociale. Al contrario, è stato rafforzato come mai prima un sistema economico e sociale in cui i poveri sono condannati a guadagnarsi da vivere con posti di lavoro precari, come lavoratori autonomi o con salari miseri e orari lunghissimi, condannati a emigrare in altri paesi in cerca di lavoro, condannati a pensioni minime e incerte. È un regime di iniquità sociale con un crescente processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
  • In secondo luogo si è approfondita la subordinazione del paese alla logica globale del capitale. Il Nicaragua è stato dato alle grandi multinazionali e al capitale straniero, che vengono a sfruttare la ricchezza naturale o ad approfittare di manodopera a basso costo. Il caso più patetico di questa logica traditrice del paese e delle sue risorse è la concessione per la costruzione del Canale interoceanico, ma prima ci sono state concessioni minerarie, forestali, ittiche, nel settore dell’energia.
  • In terzo luogo, il sistema economico-sociale prevalente in Nicaragua cerca di ridurre al minimo la manifestazione delle resistenze sociali.
  • Infine, c’è stato un processo sfrenato di concentrazione del potere nella coppia Ortega-Murillo e nella loro cerchia più vicina. È un potere che minaccia di distruggere ogni traccia di istituzioni democratiche.

Le masse che stanno manifestando, con gli studenti a capo della protesta, hanno le loro ragioni nazionali e non obbediscono a nessuna guida esterna

La rivolta contro il governo di Ortega-Murillo potrebbe essere scoppiata per molti motivi, ma di sicuro non è un’operazione orchestrata dall’esterno. Il più grande nemico della coppia Ortega-Murillo è il loro modo di esercitare il governo. La riforma del sistema previdenziale è stata un fattore scatenante, come avrebbe potuto essere il Canale interoceanico contro il quale sono già state realizzate più di cento manifestazioni negli ultimi anni. La rivolta è per la libertà e la democrazia, contro il tentativo di una famiglia di stabilire una sorta di monarchia assoluta.

È vero che l’imperialismo statunitense è dietro l’attacco ai governi classificati come di sinistra e progressisti in America Latina. Non possiamo negare la campagna sistematica contro Hugo Chávez. Né la sua partecipazione ai colpi di stato in Honduras e Paraguay. O la sua ostilità nei confronti di Evo Morales. Possiamo credere che l’imperialismo non abbia nulla a che vedere con ciò che sta accadendo in Brasile? Sì, certo, anche in Nicaragua c’è un interesse di Washington a indebolire Daniel Ortega. La Casa Bianca ha sempre fatto questo gioco in America Latina. E non perché agli Stati Uniti diano fastidio le politiche economiche di Daniel Ortega, che obbedisce al Fondo monetario internazionale, ma piuttosto per ragioni di conti in sospeso con il sandinismo.

Ma non inganniamo noi stessi: le masse che stanno manifestando in Nicaragua, con gli studenti a capo della protesta, hanno le loro ragioni nazionali e non obbediscono a nessuna guida esterna. Chiunque voglia pensare diversamente, ne ha diritto, ma è irragionevole. No, non credo che alla sinistra faccia bene attribuire tutti i mali all’imperialismo. Nel caso del Nicaragua bisogna analizzare spassionatamente la deriva presa da Daniel Ortega e Rosario Murillo dal 2007.

C’è un episodio significativo che voglio ricordare. Era il novembre del 2017 quando l’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mújica stava per arrivare a Managua per ricevere il dottorato honoris causa dall’università autonoma del Nicaragua. All’ultimo Daniel Ortega sospese unilateralmente l’atto, che alla fine non è mai stato celebrato. Per un po’ mi sono chiesto quale fosse la ragione. Ora penso di averlo capito.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano nicaraguense Confidencial. È l’estratto di un saggio apparso sul sito America Latina en movimiento.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it