La politica fiscale non funziona se il governo federale fa una cosa e quello statale un’altra. Un articolo di James Surowiecki.

Se dovessimo fare un elenco di ostacoli alla ripresa economica statunitense, la lista comprenderebbe tutti i soliti sospetti: il sistema bancario ancora debole, il crollo dei prezzi delle case, i consumatori troppo indebitati, le imprese troppo prudenti. Ma ci sono anche cinquanta colpevoli più insoliti: gli stati. Il federalismo, spesso considerato un punto di forza del sistema statunitense, è diventato un serio ostacolo all’uscita dalla crisi.

Oggi, naturalmente, è facile ironizzare sui governi statali, mentre la California firma cambiali per pagare i conti e il governatorato di New York è diventato teatro di congiure di palazzo. Il vero problema non è l’inaffidabilità dei politici locali, ma il modo in cui gli stati devono gestire i loro affari.

Pensate al pacchetto di stimolo da 787 miliardi di dollari lanciato dalla Casa Bianca. Era partito dall’idea che durante una crisi grave il governo dovrebbe aumentare le spese e diminuire le tasse per contrastare gli effetti della riduzione dei consumi e del taglio agli investimenti delle imprese.

Di conseguenza, a livello federale la politica fiscale è anticiclica: quando l’economia rallenta, aumenta il peso dell’intervento pubblico. Per i singoli stati, invece, è il contrario. A quasi tutti i governi locali viene chiesto di pareggiare il bilancio.

Quando i tempi sono difficili, i posti di lavoro spariscono, i consumi colano a picco, gli investimenti diminuiscono e le entrate fiscali precipitano. Nello stato di New York, per esempio, ad aprile e a maggio le entrate fiscali sono diminuite del 36 per cento rispetto all’anno precedente.

Perciò gli stati devono aumentare le tasse o ridurre le spese, oppure fare entrambe le cose, ed è quello che stanno facendo tutti, dal New Jersey all’Oregon. La politica fiscale degli stati, quindi, è prociclica: amplifica gli effetti della crisi invece di mitigarli.

Mentre il governo federale riversa miliardi nell’economia, i governi statali li prendono. È un metodo da tira e molla per combattere la recessione.

Ma il piano di stimolo, che prevede circa 140 miliardi di aiuti ai governi locali, ha permesso agli stati di fare tagli meno drastici del dovuto. Secondo un recente studio condotto dal Center on budget and policy priorities, gli aiuti hanno coperto solo dal 30 al 40 per cento dei deficit di bilancio degli stati, che forse avrebbero dovuto ricevere una fetta maggiore del pacchetto di stimolo.

I soldi concessi alle amministrazioni locali si traducono direttamente in posti di lavoro e in servizi che non vengono tagliati. Ma purtroppo non si vede alcun segno di riduzione dei deficit statali e, quando finiranno i fondi federali, dovranno riprendere gli aumenti delle tasse e i tagli alle spese.

Nel bel mezzo di una crisi come questa, due dei principali attori dell’economia – lo stato e i governi locali insieme rappresentano il 13 per cento del pil – si troveranno a fare il contrario di quello che dovrebbero.

Il federalismo fiscale rende anche più difficile spendere in modo efficace i soldi del pacchetto di stimolo. Buona parte delle decine di miliardi di dollari che saranno destinate ai lavori stradali, per esempio, sarà gestita dagli stati. Di conseguenza, una quantità enorme di denaro finirà nelle zone rurali (che hanno un peso sproporzionato sui governi locali), lasciando a corto di soldi le città, dove vivono più persone e c’è più traffico.

Le 85 principali aree metropolitane del paese producono tre quarti del pil nazionale, ma riceveranno meno della metà dei fondi destinati alla costruzione di strade.

Ma soprattutto, il federalismo impedisce di costruire una rete elettrica “intelligente”, cioè di trasformare l’accozzaglia di reti regionali in una vera e propria rete nazionale, capace di individuare i problemi e di risolverli subito, fornendo agli utenti maggiori informazioni e un maggior controllo sull’uso che fanno dell’elettricità, e così via.

Una rete del genere potrebbe anche ridurre notevolmente la nostra dipendenza dal petrolio. L’energia eolica potrebbe coprire il 20 per cento dei consumi statunitensi. Ma i posti dove se ne può produrre una grande quantità sono lontani da quelli dove sarebbe consumata.

Una nuova rete ci permetterebbe di far arrivare l’energia dove serve. Ma dato che nessuno vuole vedere passare le linee elettriche attraverso la sua proprietà, costruirla significherebbe scavalcare gli stati o convincerli, e le possibilità che questo succeda sono scarse.

Il conflitto tra interessi statali e nazionali non è una novità e risale agli inizi della repubblica. Naturalmente il governo federale è cresciuto rispetto a quei tempi, eppure negli ultimi vent’anni abbiamo delegato sempre maggiori poteri agli stati. Il motivo di questa scelta è chiaro: le persone che vivono direttamente un problema spesso sanno meglio come risolverlo.

Ma una questione sovrastatale come quella della rete elettrica, non può essere affrontata a livello locale. E la politica fiscale non funziona se il governo federale fa una cosa e quello statale ne fa un’altra. Ormai l’economia è globale. Sarebbe bene avere un governo veramente nazionale.

James Surowiecki è un giornalista statunitense che ha una column di economia sul New Yorker. In Italia ha pubblicato La saggezza della folla (altri articoli di James Surowiecki pubblicati da Internazionale).

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