per Marie-Claude

Sto disegnando gli iris che crescono contro il muro meridionale della casa. Sono alti circa un metro ma, quasi in piena fioritura, sembrano curvarsi sotto il peso dei fiori. Quattro per stelo. Il sole splende. È maggio. Sotto i millecinquecento metri non resta traccia di neve. Gli iris devono essere della varietà Copper Lustre, color porpora-marrone scuro, bianchi, gialli, rame: le tinte degli strumenti di una banda di ottoni che suona con abbandono. Steli, calici e sepali sono verde smeraldo pallido.

Disegno con inchiostro nero (Sheaffer), acquerello e saliva, usando il dito al posto del pennello. Al mio fianco, sul prato dove sono seduto, ci sono alcuni fogli di carta da riso cinese colorata. Li ho scelti perché hanno le sfumature dei cereali. Forse più tardi li strapperò per ricavarne qualche sagoma da usare in un collage. Chissà. Nel caso, ho con me della colla in stick.

Sull’erba c’è anche un pastello a olio giallo squillante, preso da una di quelle scatole di pastelli Giotto che i bambini usano a scuola.

I fiori sulla pagina probabilmente saranno la metà della grandezza naturale. Quando si disegna si perde la cognizione del tempo. Si è completamente concentrati sul calcolo dello spazio. Devo aver disegnato per circa quaranta minuti, forse di più.
Gli iris crescevano a Babilonia. Più tardi presero nome dalla dea greca dell’arcobaleno. Il fleur de lys francese era un iris. I fiori occupano la metà superiore del foglio, in quella inferiore i gambi si fanno largo verso l’alto. Non sono verticali, si piegano verso destra.

Il disegno accumula le risposte. Naturalmente, via via che metti in discussione le prime risposte, accumula anche le correzioni

A un certo punto, se non decidi di abbandonare un disegno per cominciarne un altro, l’osservazione richiesta da quel che stai misurando e raccogliendo cambia.

All’inizio interroghi il modello (i sette iris) per scoprire le linee, le forme, i toni che puoi tracciare sul foglio. Il disegno accumula le risposte. Naturalmente, via via che metti in discussione le prime risposte, accumula anche le correzioni. Disegnare è correggere. Ora comincio a usare i fogli di carta cinese: i tratti a inchiostro si trasformano in vene.

Se si è fortunati, a un certo punto l’accumulazione diventa un’immagine. Smette, cioè, di essere un cumulo di segni e si trasforma in presenza. Grossolana, ma presenza. È lì che il tuo modo di osservare cambia. Cominci a interrogare la presenza quanto il modello.

Dov’è che chiede di essere modificata per farsi meno grossolana? Fissi il disegno e continui a gettare occhiate ai sette iris per osservare, stavolta non la loro struttura, ma quel che ne irradia, la loro energia. Come interagiscono con l’aria circostante, con la luce del sole, con il calore che emana dal muro della casa?

Adesso disegnare comporta un sottrarre oltre che un aggiungere. Implica il foglio di carta tanto quanto le forme che vi sono disegnate. Uso lametta, matita, pastello giallo, saliva. Non posso fare in fretta.

Me la prendo comoda, come se avessi tutto il tempo del mondo. Ho tutto il tempo del mondo. Con questa convinzione, continuo a fare correzioni minime, una dopo l’altra e un’altra ancora, per rendere la presenza dei sette iris un po’ più sicura e dunque più evidente.

Una piccola lumaca, a cui piacciono le foglie dell’arbusto di ribes nero lì di fianco, esamina il cerchio dei miei strumenti sull’erba. Tutto il tempo del mondo.

In realtà devo consegnare il disegno entro stasera. L’ho fatto per Marie-Claude, che è morta due giorni fa, a cinquantotto anni, d’infarto.

Stasera il disegno sarà in chiesa accanto al suo feretro. La bara sarà aperta per chi vuole dare un ultimo saluto a Marie-Claude. Il funerale è domani. Poi il disegno, arrotolato e stretto da un nastro, verrà messo nella bara insieme ai fiori freschi e sepolto con lei.

Noi che disegniamo non lo facciamo solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione.

Due giorni dopo il funerale di Marie-Claude ho ricevuto un’email in cui mi comunicavano che un mio piccolo disegno – otto volte più piccolo dello schizzo degli iris Copper Lustre – era stato venduto per 4.500 sterline a un’asta d’arte londinese. Nel corso della sua intera vita, Marie-Claude non si sarebbe mai sognata di avere tra le mani una somma simile.

L’asta era organizzata dalla fondazione Helen Bamber, che fornisce assistenza morale, materiale e legale a chi chiede asilo in Gran Bretagna, uomini e donne la cui vita e la cui identità sono state distrutte da trafficanti di esseri umani (l’equivalente contemporaneo dei mercanti di schiavi), eserciti che terrorizzano le popolazioni civili, e governi razzisti. La fondazione aveva chiesto a vari artisti di donare un’opera da mettere all’asta per raccogliere fondi destinati a finanziare le sue attività.

Come molti altri, avevo mandato un piccolo contributo: un ritratto di piccole dimensioni a carboncino del subcomandante Marcos. Lo avevo fatto in Chiapas, nel sudest del Messico, attorno al Natale del 2007.

Lui, io, due comandanti zapatisti e due bambini ci stiamo rilassando in una capanna di legno ai margini della città di San Cristóbal de las Casas.

Marcos e io ci siamo scritti alcune lettere, abbiamo parlato insieme dallo stesso palco, ma non ci siamo mai trovati faccia a faccia in privato. Sa che mi piacerebbe fargli un disegno. So che non si toglierà la maschera.

Lascio che il carboncino, stretto tra il pollice e due dita, disegni, come se leggessi con i polpastrelli una specie di braille. Il disegno s’interrompe

Potremmo parlare delle prossime elezioni messicane o dei contadini come classe di sopravvissuti, ma non lo facciamo. Siamo colpiti entrambi da una strana quiete. Sorridiamo. Lo osservo e non sento nessuna urgenza di disegnarlo. È come se fossimo stati insieme giorni e giorni, come se tutto avesse la familiarità del quotidiano e non richiedesse nessuna azione.

Alla fine apro il mio taccuino per gli schizzi e prendo un carboncino. Gli vedo le ciglia inferiori, gli occhi, il ponte del naso. Il resto è nascosto dal passamontagna e dal berretto. Lascio che il carboncino, stretto tra il pollice e due dita, disegni, come se leggessi con i polpastrelli una specie di braille. Il disegno s’interrompe. Ci spruzzo sopra del fissativo perché non sbavi. La capanna di legno odora dell’alcol dello spray.

Nel secondo disegno la sua mano destra si solleva a sfiorare la guancia della maschera, una mano grande e aperta, con il dolore tra le dita. Il dolore della solitudine. La solitudine di un intero popolo negli ultimi cinquecento anni.

Poi prende il via un terzo disegno. Due occhi che studiano i miei. La presunta ondulazione di un sorriso. Sta fumando la pipa. Fumare la pipa o osservare un compagno che la fuma è un altro modo di lasciar passare il tempo, di non fare nulla.
Fisso il disegno con lo spray. Il disegno successivo, il quarto, raffigura due uomini che si guardano attentamente. Ognuno alla sua maniera.

Forse non si tratta di disegni veri e propri, ma solo di quattro abbozzi di mappe di un incontro. Mappe che magari lo renderanno un po’ più indelebile. Questione di speranza. Quella che ho dato alla fondazione Helen Bamber è una di queste mappe.

Sembra che le offerte siano andate avanti a lungo e con passione. Gli offerenti facevano a gara per dare denaro a una causa in cui credevano e, in cambio, speravano di arrivare un po’ più vicini a un pensatore politico sognatore, che si rifugia sulle montagne del Messico sudorientale.

Il denaro spuntato all’asta aiuterà a comprare medicinali e cure, e a pagare consulenti, infermieri, avvocati per Sara, Hamid, Gulsen, Xin…

Noi che disegniamo non lo facciamo solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione.

Adesso un disegno che ho cominciato due settimane fa. Da allora ci ho lavorato ogni giorno, avvicinandomi in punta di piedi per coglierlo di sorpresa, l’ho corretto, cancellato – è un grande disegno a carboncino su carta spessa – nascosto, esposto, rielaborato, guardato in uno specchio, ridisegnato. Oggi penso che sia finito.

È un disegno di María Muñoz, la danzatrice spagnola. Nel 1989, con Pep Ramis, padre dei loro tre figli, María ha fondato una compagnia di danza chiamata Mal Pelo. Lavorano a Girona, in Catalogna, e si esibiscono in giro per l’Europa. Cinque anni fa mi hanno invitato a collaborare con loro.

In che modo? Osservandoli per ore mentre improvvisavano e provavano, da soli, insieme, a coppie. Di quando in quando suggerivo una svolta nella trama, una parola o due, oppure un’immagine da proiettare. Potevano usarmi come una specie di orologio narrativo.

Li osservavo mentre preparavano i pasti, chiacchieravano intorno alla tavola, consolavano i bambini, riparavano una sedia, si cambiavano d’abito, facevano esercizio e danzavano. María era, di gran lunga, la danzatrice più esperta, ma non dirigeva, semmai dava l’esempio, spesso mostrando come correre dei rischi.
I corpi dei ballerini, con la devozione che li contraddistingue, sono duali. Si vede, è evidente qualsiasi cosa facciano. A determinarli è una sorta di Principio d’incertezza: invece di essere alternativamente particella e onda, sono alternativamente donatore e dono.

I danzatori conoscono il loro corpo in modo così penetrante da poterci stare dentro, o davanti e oltre. E il cambiamento è continuo: a volte avviene ogni pochi secondi, a volte ogni pochi minuti.

La dualità di ogni corpo è quel che gli consente, quando si esibiscono, di fondersi in una sola entità. Si appoggiano, sollevano, spostano, rigirano, separano, congiungono, sostengono l’un l’altro affinché due o tre corpi diventino un’unica dimora, come la cellula vivente è casa per le sue molecole e i suoi messaggeri, o la foresta per i suoi animali.

La medesima dualità spiega perché siano affascinati dalle cadute non meno che dai salti, e perché il terreno li stimoli quanto l’aria. Lo scrivo a proposito della compagnia Mal Pelo quando è in scena, perché è un modo di descrivere il corpo di María. Un giorno, osservandola, ho cominciato a pensare ai bronzi e ai disegni di danzatrici nude dell’ultimo Degas e, in particolare, a Danza spagnola. Ho chiesto a María se era disposta a posare per me. Ha acconsentito.

Lascia che ti mostri qualcosa, ha proposto, si tratta di una posizione preparatoria a terra che chiamiamo “il ponte”, perché il peso del corpo è a mezz’aria tra il palmo della mano sinistra, poggiato sul pavimento, e il piede destro, che preme anch’esso sul terreno. Tra quei due punti fissi l’intero corpo è in attesa, attento, sospeso.

Disegnare María nella posizione del ponte era come disegnare un minatore al lavoro in un giacimento molto angusto. Il suo corpo, pur essendo estremamente femminile, era con tutta evidenza abituato alla fatica e alla resistenza: ecco da dove nasceva il paragone.

La dualità si manifestava nella sua calma – il piede sinistro adagiato sul pavimento come un animale addormentato – e nel reticolo di forze dei fianchi e della schiena, pronto a sfidare ogni peso morto.

Alla fine ci siamo interrotti. È venuta a guardare il disegno. Abbiamo riso insieme.

Poi, a casa, ci ho lavorato sopra per giorni. Spesso l’immagine nella mia testa era più chiara di quella sul foglio. Continuavo a ridisegnare. A forza di modifiche e cancellature, la carta è diventata grigia. Il disegno non migliorava, ma a poco a poco lei, in procinto di mettersi in piedi, era sempre più lì.

Oggi, come dicevo, è successo qualcosa. Lo sforzo delle mie correzioni e la resistenza della carta hanno cominciato a somigliare all’elasticità del corpo di María. La superficie del disegno, la sua pelle, non l’immagine, mi fanno pensare che ci sono momenti in cui un danzatore può farti venire la pelle d’oca.

Noi che disegniamo non lo facciamo solo per rendere visibile qualcosa agli altri, ma anche per accompagnare qualcosa di invisibile alla sua incalcolabile destinazione.

(Traduzione di Maria Nadotti)

Questo articolo è stato pubblicato il 2 ottobre 2009 a pagina 86 di Internazionale con il titolo “La compagnia dei disegni”. Compra questo numero | Abbonati

La versione originale è uscita sull’Irish Times.

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