A metà maggio il Brasile si è aggiudicato un triste primato mondiale: aveva il maggiore aumento del tasso di contagio da Sars-cov 2 di tutti i paesi del mondo. Nel giro di un mese ha superato un milione di casi confermati. Questa tendenza lo ha portato al secondo posto dopo gli Stati Uniti per casi positivi e morti, che erano circa mille al giorno. Secondo alcune stime, alla fine dell’epidemia il Brasile potrebbe registrare 34 milioni di contagiati e 300mila morti.
Il presidente di estrema destra che governa il paese, Jair Bolsonaro, non ha fatto nessuno sforzo per fermare la pandemia. Al contrario, ha minimizzato il pericolo definendo il virus un semplice “raffreddore” e ha risposto all’aumento del numero dei contagiati dicendo: “Prima o poi tutti dobbiamo morire”. Quando i governatori degli stati hanno ordinato il lockdown e il distanziamento sociale, Bolsonaro si è unito alle manifestazioni di protesta contro di loro.
Oliver Stuenkel, professore associato di affari internazionali alla Getulio Vargas Foundation di São Paulo, sostiene che la reazione di Bolsonaro alla pandemia è il risultato di un calcolo brutale. “Il presidente sapeva che il virus avrebbe provocato una profonda crisi economica”, mi ha detto Stuenkel. “Sa che per un leader sudamericano è difficile rimanere al potere con un’economia nelle condizioni attuali. E agli elettori degli stati dove è stato imposto il distanziamento sociale dirà che l’imminente crisi economica non è stata colpa sua ma dei governatori. Se invece le cose torneranno a posto dirà: vedete, dopotutto non era così grave. E anche se andranno male, può sempre cercare di raccontarla diversamente”. Per il momento la tattica di comunicazione di Bolsonaro sembra funzionare. Anche se dagli ultimi sondaggi emerge un maggiore scontento nei suoi confronti, circa il 30 per cento della popolazione è ancora con lui, inamovibile, come lo zoccolo duro che sostiene Donald Trump, il modello politico di Bolsonaro.
Nei paesi vicini del Brasile, la paura del contagio ha spinto i governi a inasprire i controlli ai confini o a chiuderli del tutto. Nonostante questo, in due di questi paesi il tasso di contagio da covid-19 ha ricominciato a crescere all’inizio di luglio. L’Ecuador conta 71mila casi e più di cinquemila decessi. In Perù, nonostante un lockdown di tre mesi imposto anche con l’intervento della polizia e dell’esercito, i casi sono 340mila e i morti quasi tredicimila. Nella regione dell’Amazzonia, dove il traffico fluviale in entrata e in uscita dal Brasile non si è fermato, il virus si è diffuso con effetti devastanti e alcune comunità indigene sono state duramente colpite, causando centinaia di vittime, tra cui Paulinho Paiakan. Leader del popolo kayapó, Paiakan finì sotto i riflettori internazionali negli anni ottanta, quando, insieme ad altri capi indigeni e alcune celebrità mondiali guidò le proteste contro la costruzione di un’enorme diga sul fiume Xingu.
Il problema messicano
Grazie in larga misura alla negligenza di Bolsonaro, l’America Latina è diventata il principale focolaio mondiale del virus, ma le sofferenze non sono state equamente distribuite. Le croniche disuguaglianze economiche e sociali della regione hanno significato che i poveri, che spesso vivono in baraccopoli affollate e per sopravvivere dipendono da precari guadagni quotidiani, sono stati i più colpiti. Alcuni governi sono riusciti a ridurre gli effetti della pandemia. In Costa Rica, uno dei paesi della regione ad avere casi di covid-19, il governo ha vietato da subito gli assembramenti, ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha chiuso le frontiere. A partire da fine giugno la situazione è peggiorata, ma per il momento il paese conta novemila contagi e 41 morti.
Per essere efficace, la risposta all’epidemia deve essere rapida, ben organizzata e sistematica. Il Cile, come la Costa Rica, sembra aver reagito in questo modo. Alla fine di aprile, con un numero di morti ancora di poche centinaia, il presidente conservatore Sebastián Piñera ha annunciato un piano per cominciare a riaprire il paese. Ma subito dopo c’è stato un improvviso aumento dei casi che a metà maggio lo ha costretto a imporre un lockdown più rigido, oggi ancora in vigore. A sei settimane di distanza, il Cile conta 320mila casi confermati e settemila morti. Sembra che Piñera abbia peccato di arroganza, piuttosto che di negligenza premeditata. Ma quando i capi di stato hanno agito per calcolo politico invece che guidati da valutazioni scientifiche, i loro cittadini ne hanno risentito. I leader autoritari della regione sono stati indubbiamente quelli che hanno reagito peggio, perché cercano di costringere gli esperti e i medici a conformarsi alle loro scelte politiche. In alcuni paesi le conseguenze sono state devastanti, punitive, o dolorosamente assurde.
Quando il virus è comparso in Messico, il presidente di sinistra Andrés Manuel López Obrador ha sminuito il pericolo e ha invitato i cittadini ad andare nei ristoranti per sostenere l’economia locale. Ha continuato a partecipare a incontri con i suoi sostenitori, dove è stato visto abbracciare signore anziane e baciare bambini. Sosteneva di essere protetto dal contagio da due portafortuna religiosi, da un quadrifoglio e da un biglietto da due dollari.
Ma alla fine di marzo López Obrador ha cambiato tattica. Ha pronunciato un discorso in cui ammetteva i rischi del nuovo coronavirus e invitava i messicani a rispettare il distanziamento sociale. Tre giorni dopo il suo governo ha dichiarato l’emergenza sanitaria nazionale e ha emanato alcune linee guida. Le scuole, i centri commerciali e gli uffici governativi sono stati chiusi ma non è stato imposto il lockdown obbligatorio, e a quanto pare i tamponi fatti erano pochi. Un mese dopo le cifre ufficiali del Messico – 19mila casi in un paese di 126 milioni di abitanti – sembravano ancora basse rispetto ad altri paesi. Alla fine di aprile López Obrador ha dichiarato che il suo paese aveva “domato” il covid-19, e anche i suoi consulenti sanitari hanno lasciato intendere che il virus avrebbe presto raggiunto il picco.
A fine maggio i contagi giornalieri in Messico crescevano. Nonostante questo il governo ha presentato un piano per riaprire il paese al turismo
Da allora c’è stato un forte aumento dei casi, soprattutto a Città del Messico, e questo fa pensare che il presidente messicano abbia cantato vittoria troppo presto. Mezzi di informazione messicani e stranieri hanno pubblicato articoli in cui si accusava il governo di nascondere il numero reale dei decessi. Ne è seguito un duello tra i critici del governo e i suoi sostenitori. Al culmine del dibattito José Hernández, un vignettista satirico e commentatore che sostiene López Obrador, si è detto indignato per gli articoli dei giornali. “Hanno dipinto una situazione veramente tragica”, ha detto. “Ma non è così. Naturalmente ci sono stati dei morti, è una pandemia. Ma non è come dicono”. E ha spiegato: “Città del Messico è il posto con più contagi del paese, ma è sotto controllo e, grazie al fatto che gli spostamenti si sono ridotti del 65 per cento, l’epidemia è stata contenuta”.
Altri commentatori l’hanno definita un’illusione. Perfino il viceministro della sanità ha calcolato che il vero numero di contagi è probabilmente otto volte più alto delle cifre ufficiali. Enrique Krauze, un importante storico particolarmente critico nei confronti del presidente messicano, mi ha detto: “López Obrador non ha mai preso sul serio la pandemia. Ha continuato a viaggiare in tutto il paese, incoraggiando le interazioni sociali e perfino gli abbracci, i tamponi sono stati praticamente inesistenti”.
A fine maggio i contagi giornalieri erano circa 3.500. Nonostante questo il governo ha presentato un piano per riaprire il paese al turismo. Nell’ambito della campagna promozionale, alcuni alberghi di Cancún hanno cominciato a fare offerte molto convenienti per il noleggio delle automobili o per il soggiorno negli hotel. Durante la settimana in cui la maggior parte degli alberghi di Cancún ha riaperto, in Messico c’è stato il secondo maggior numero di morti di covid dell’America Latina, più di 15mila (al momento il paese conta 320mila casi e 37mila morti, con circa seimila nuovi contagi al giorno). La cifra reale, a detta di tutti, è molto più alta. “López Obrador ha ricominciato a viaggiare per il paese, senza mascherina”, dice Krauze. “E intanto i messicani muoiono in silenzio e stoicamente nelle loro case”.
Brutalità in Salvador
In Salvador il virus è stato contenuto, ma solo con una rigida repressione. L’operazione è stata guidata dal presidente Nayib Bukele, un disinvolto trentottenne ex sindaco e manager di locali notturni, che si è presentato alle elezioni come indipendente, e governa il paese tramite Twitter. All’inizio della pandemia, prima che ci fossero casi nel paese, ha imposto uno dei più rigidi lockdown dell’emisfero. Dopo aver chiuso le frontiere e l’aeroporto internazionale, Bukele ha schierato l’esercito e la polizia per essere sicuro che nessuno uscisse di casa. Migliaia di cittadini accusati di aver violato la quarantena sono stati rinchiusi in “centri di contenimento” per trenta giorni, e la stessa cosa è stata fatta con quelli tornati dall’estero.
Quando la corte suprema del paese ha stabilito che quelle detenzioni erano incostituzionali, Bukele ha ignorato la sentenza e ha prolungato il rigido lockdown.
A trent’anni dalla devastante guerra civile, il Salvador ha ancora un serio problema di mancanza di legalità e trasparenza. L’autoritarismo di Bukele ha attirato le critiche delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. In aprile, dopo una serie di omicidi nei quartieri controllati dalle bande criminali, il presidente ha reagito organizzando un’umiliazione di massa. In tutte le prigioni del paese ha ordinato di mettere i membri delle bande in cella con i loro rivali, e ha anche chiesto di scattare delle foto in cui si vedevano centinaia di malviventi ammanettati, senza camicia e con la testa rasata, costretti da guardie armate a formare lunghe file e poi sedersi corpo a corpo con gli uomini davanti e dietro di loro.
Tempo prima, a febbraio, Bukele è entrato nell’assemblea legislativa scortato da soldati armati, si è seduto al posto del presidente della camera e ha chiesto ai deputati di approvare un pacchetto sicurezza da cento milioni di dollari per comprare un elicottero, occhiali per la visione notturna e un sistema di videosorveglianza per l’esercito. Bukele gode dell’appoggio incondizionato dell’amministrazione Trump, collabora con le politiche degli Stati Uniti in materia di immigrazione e traffico di narcotici e ha assunto una posizione critica nei confronti della Cina, che sta cercando di intrufolarsi nella regione. L’ambasciatore statunitense nel paese, Ronald Johnson, un vecchio ufficiale dell’esercito e agente della Cia, esprime regolarmente su Twitter la sua approvazione per i decreti di Bukele e dispensa consigli non richiesti e avvertimenti ai salvadoregni. A giugno Bukele ha tenuto una conferenza stampa con Johnson durante la quale ha rivelato che, come Trump e “la maggior parte dei leader mondiali,” anche lui prende l’idrossiclorochina come trattamento preventivo conto il covid-19 (in realtà l’unico altro leader che si è vantato di prendere questo farmaco è Bolsonaro).
Un funzionario di Washington esperto della regione mi ha detto che se Joe Biden dovesse diventare presidente degli Stati Uniti a novembre, per Bukele sarebbe un disastro. “Il presidente del Salvador sembra pensare che l’approvazione di Trump, dovuta alla sua collaborazione sul rimpatrio degli immigrati senza documenti, gli garantisca una protezione duratura per poter continuare a distruggere le istituzioni democratiche. Al congresso degli Stati Uniti c’è già un certo scetticismo da parte di entrambi i partiti e i democratici sono sempre più allarmati per la sua tendenza autoritaria. Temo che andrà troppo oltre e non potrà più tornare indietro”.
Il giornalista Carlos Dada sostiene che l’amministrazione Trump ha una grossa responsabilità per il comportamento di Bukele
Anche Carlos Dada, un noto giornalista salvadoregno, prevede conseguenze disastrose. La rigida quarantena imposta da Bukele, mi ha detto, è stata “più una punizione che altro”. La gente era disperata. “Tre mesi dopo l’introduzione delle prime misure, siamo rimasti in un lockdown controllato dalla polizia e dall’esercito invece che dalle autorità sanitarie. Dalla fine di marzo per le strade sono stati schierati poliziotti e soldati. Se non eri in grado di giustificare il motivo per cui eri uscito di casa venivi mandato in un centro di contenimento. Il governo ha rinchiuso le persone – più di 15mila – in posti sovraffollati, senza i servizi più basilari, e il virus ha cominciato a diffondersi da lì”.
Intanto incombeva il disastro economico, ha continuato Dada. “Gli introiti ricavati dalle tasse sulla vendita dei prodotti sono scesi a picco, le rimesse dall’estero sono molto diminuite, la disoccupazione è aumentata in modo significativo, e alcune attività hanno dovuto chiudere perché non ce la facevano a tirare avanti”. Ma la cosa più preoccupante, secondo il giornalista, è che aveva cominciato a diffondersi la fame tra i più poveri, molti dei quali vivono alla giornata con i guadagni dell’economia informale. “In tutto il Salvador c’è un mare di bandiere bianche che mostrano dove ci sono persone che hanno bisogno di aiuti alimentari. Non hanno abbastanza da mangiare”.
Nonostante lo smantellamento delle istituzioni democratiche operato da Bukele e i suoi discorsi divisivi, il presidente del Salvador ha il più alto tasso di consensi di qualsiasi altro capo di stato latinoamericano. Secondo Dada, questo si spiega in parte con il fatto che non c’è alternativa. “L’esercito e la polizia si sono dichiarati fedeli a Bukele più che alla costituzione, e i principali partiti politici si sono screditati da soli con una serie di episodi di corruzione”. Tre degli ultimi presidenti del paese sono stati coinvolti in scandali, uno è in prigione, un altro è morto in attesa di sentenza e il terzo è fuggito in Nicaragua. Dada dice che l’amministrazione Trump ha una grossa responsabilità per il comportamento di Bukele. “Il modo in cui l’ambasciata degli Stati Uniti ha sostenuto lo smantellamento delle istituzioni democratiche dimostra il cambiamento dell’atteggiamento di Washington nei confronti del Salvador”, dice. “Da quando il trattato di pace ha messo fine alla guerra civile, democratici e repubblicani statunitensi hanno cercato di aiutare il paese a consolidare la sua democrazia, a combattere la corruzione e a rafforzare le istituzioni. Adesso l’amministrazione Trump ha ridotto il programma di collaborazione a due temi: l’immigrazione e il traffico di droga. Il messaggio è chiaro: finché Bukele perseguirà questi due obiettivi, gli Stati Uniti chiuderanno un occhio su tutto il resto”.
A metà giugno la corte suprema del Salvador ha stabilito di nuovo che i decreti sul lockdown di Bukele erano incostituzionali. Dopo un giro di feroci tweet, il presidente ha annunciato la fine della quarantena, ma a inizio luglio 1.300 persone erano ancora detenute nei “centri di contenimento”. Al momento il Salvador conta diecimila contagi e circa 300 morti. In proporzione, questi numeri non sono più bassi di quelli dei paesi vicini. La Costa Rica ha ottenuto risultati migliori senza imprigionare i suoi cittadini.
Il carnevale di Managua
Il Nicaragua è il paese latinoamericano che ha risposto in modo più strano al covid-19. La “Prima coppia” – il presidente ex rivoluzionario Daniel Ortega e sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo – è diventata famosa per una combinazione di tendenze autoritarie e comportamenti bizzarri. Nel 2018 hanno represso le manifestazioni a favore della democrazia dispiegando i paramilitari, che hanno ucciso centinaia di civili. A marzo del 2020 Ortega e Murillo hanno organizzato una sfilata carnevalesca dei loro sostenitori nella capitale Managua. I manifestanti hanno ridicolizzato la pandemia e proclamato che la pace e l’amore avrebbero vinto su tutto.
Per mesi Ortega non ha fatto niente per proteggere il paese, ma il numero ufficiale dei morti rimaneva stranamente basso. A metà maggio il governo sosteneva che ci fossero stati solo 25 contagi e dieci decessi, il che ha spinto la rivista medica The Lancet a pubblicare un articolo critico nei suoi confronti. “Il governo del Nicaragua non rivela quanti tamponi ha fatto. Quindi è impossibile conoscere la verità sul numero di casi”, hanno scritto gli autori. All’inizio della pandemia Ortega è sparito per un mese, sollevando dubbi sulla sua salute. Il 15 aprile è riapparso all’improvviso, senza dare nessuna spiegazione per la sua assenza e ha annunciato che il covid-19 era “un segno di Dio” contro il militarismo e l’egemonia degli Stati Uniti.
Poco dopo sono emerse le notizie di casi non denunciati negli ospedali di Managua, di autopsie falsificate, di vittime fatte sparire e “sepolture veloci” notturne. Murillo ha smentito le voci definendole “fake news”. Quando un gruppo di professionisti della sanità ha pubblicato tre lettere aperte in cui chiedeva una risposta più trasparente ed efficace alla pandemia, li ha derisi chiamandoli “extraterrestri” senza vergogna e “senza cervello”. Nel suo discorso del 1 maggio, Ortega ha lasciato intendere che rimanere a casa avrebbe significato “distruggere il paese”.
Ho chiesto a Sergio Ramírez, scrittore ed ex vicepresidente di Ortega, oggi critico nei suoi confronti, se credeva che la “Prima coppia” tenesse nascosto il vero numero dei contagi. Mi ha detto che secondo lui è così. “Lo fanno deliberatamente”, ha detto. “Non sono sicuro del motivo, perché quei due vivono nel loro mondo, ma penso che vedano il virus come un’aggressione politica nei loro confronti”. Il 27 maggio le autorità sanitarie del Nicaragua hanno portato il conteggio a 759 casi e 35 decessi, cifre che ovviamente sono troppo basse per essere reali (al momento i dati ufficiali sono di tremila casi e cento morti). A giugno l’Organizzazione panamericana della sanità ha previsto un “forte aumento” dell’incidenza della malattia in Nicaragua, ma la crescita è difficile da quantificare a causa della poca trasparenza del regime.
Il 2 giugno Murillo ha tenuto un discorso per commemorare 22 sandinisti scomparsi di recente. Tutti sapevano che erano morti di coronavirus. Invece di rivelare la causa della loro morte, ha detto solo che erano “partiti per un altro piano della vita”.
Christopher Sabatini, un ricercatore della Chatam House e uno dei più attenti osservatori delle tendenze populiste dell’America Latina, mi ha detto: “Populisti come Ortega, Bukele, López Obrador e Bolsonaro amano presentarsi come rappresentanti della volontà popolare. Questa concezione della politica, condivisa da molti dei loro sostenitori, non ammette divergenze di opinione né controlli sulle autorità. Di conseguenza, la politica diventa a somma zero. Le scelte possono essere diverse – la quarantena sotto la minaccia dei fucili di Bukele o la protezione mistica di Obrador – ma l’inflessibilità è la stessa e il pericolo è lo stesso: non accettano informazioni o opinioni diverse dalle loro. La volontà del popolo e quelli che credono di incarnarla non ammettono sfumature e, meno che mai, di essere messi in discussione”.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è stato pubblicato sul New Yorker.
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