Ci risiamo. Seoul e Pyongyang sono di nuovo ai ferri corti, in un gioco delle parti che segue alla lettera un copione ormai trito e i cui toni, però, sembrano più aspri del solito. Dopo il test nucleare (forse all’idrogeno) con cui i nordcoreani hanno salutato l’anno nuovo, negli ultimi giorni la situazione è precipitata. Mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha annunciato un inasprimento delle sanzioni in risposta al test di gennaio, Pyongyang il 7 febbraio ha alzato il tiro testando un missile balistico intercontinentale (anche se ufficialmente si è trattato della messa in orbita di un satellite per mezzo di un razzo).

Nel giro di trentasei ore, Seoul ha sospeso le operazioni nel polo industriale cogestito dai due paesi a Kaesong, a nord del 38° parallelo, l’ultimo bastione della cooperazione intercoreana ancora in piedi. Non è la prima volta che accade: proprio perché è l’unico punto d’incontro in un rapporto bilaterale basato sulle provocazioni reciproche, l’andamento delle attività negli impianti di produzione di Kaesong – dove lavorano 55mila operai nordcoreani – è stato usato più volte come metro per misurare il livello delle tensioni nella penisola.

Nel 2013, da poco arrivata alla Casa blu, Park aveva dimostrato maturità e sangue freddo affrontando in modo brillante la sua prima crisi con il Nord

Stavolta, però, Seoul tiene il punto e, in una mossa che alcuni giudicano esagerata, soprattutto se paragonata a situazioni analoghe del passato, ha annunciato che la sospensione delle operazioni è “definitiva” perché “il polo industriale è usato dai nordcoreani per sviluppare armi nucleari e missili a lungo raggio”. La motivazione ha fatto alzare qualche sopracciglio e ha offerto il fianco alla replica fuori dai denti di Pyongyang: “È idiota credere che la chiusura di Kaesong possa avere conseguenze sullo sviluppo delle nostre potenti armi nucleari o sul lancio di satelliti”. In effetti, se si calcola che la Corea del Nord ricava ogni anno da Kaesong tra gli 80 e i 100 milioni di dollari, pari al 30 per cento delle sue entrate, e che dalle esportazioni in Cina ha ricavato nel 2015 l’equivalente di 2,5 miliardi di dollari, l’affermazione suona inverosimile.

Dietro la mossa della presidente Park Geun-hye (a quanto pare decisa nonostante il parere contrario del suo ministero dell’unificazione, responsabile per il governo sudcoreano della gestione del complesso, che pendeva per la sospensione temporanea delle attività) ci sarebbe un calcolo politico in vista delle elezioni di aprile per il rinnovo del parlamento. Nel 2013, da poco arrivata alla Casa blu, Park infatti aveva dimostrato maturità e sangue freddo affrontando in modo brillante la sua prima crisi con il Nord: allora era stata Pyongyang a ritirare tutti i suoi operai da Kaesong, provocando uno stallo durato mesi e finito in modo inaspettatamente positivo, ossia con un accordo per garantire la continuità delle attività del complesso “indipendentemente dall’andamento dei rapporti tra Nord e Sud”. Un po’ ottimistico considerato che il polo industriale dal 2004 è la valvola di sicurezza quando la crisi nella penisola si fa più acuta, ma pur sempre un impegno messo nero su bianco che oggi Seoul ha deciso di ignorare.

Anche stavolta, dunque, le due Coree sembrano fare sul serio, ma è così ogni volta che sale la tensione e ogni volta l’allarme puntualmente rientra

La reazione di Pyongyang non si è fatta attendere: l’11 febbraio ha espulso il personale sudcoreano, ha congelato i loro beni (congelato, non confiscato, secondo qualcuno uno spiraglio perché la situazione in qualche modo rientri) e ha messo Kaesong sotto il controllo militare. E per rimarcare la gravità della situazione ha anche interrotto la “linea rossa” usata per le comunicazioni militari d’emergenza. I primi a soffrire della crisi in corso sono i titolari (sudcoreani) delle aziende che operano nel polo cogestito, avvertiti quaranta minuti prima dello sgombero.

Anche stavolta, dunque, le due Coree sembrano fare sul serio. Ma è così ogni volta che sale la tensione, si obietterà, e ogni volta l’allarme puntualmente rientra. La storia recente della penisola, del resto, ci ha abituato a crisi ben più gravi di questa (la turista sudcoreana uccisa sul monte Geomgang da un soldato nordcoreano nel 2008, l’affondamento della corvetta militare sudcoreana Cheonan nel 2010 e il bombardamento nordcoreano dell’isola di Yeonpyeong, sempre nel 2010). Staremo a vedere. Intanto si attendono le nuove sanzioni del Consiglio di sicurezza e la probabile reazione di Pyongyang.

E in questo panorama fosco, almeno una buona notizia. L’Afp ha firmato un accordo con la Kcna, l’agenzia di stampa nordcoreana, per l’apertura di una sede a Pyongyang

E in questo panorama fosco, almeno una buona notizia. Proprio nei giorni in cui Pyongyang provocava l’ira di Seoul, Washington, Tokyo e del consiglio di sicurezza tutto (Cina inclusa), l’Agence France Press (Afp) firmava un accordo con la Kcna, l’agenzia di stampa nordcoreana, per l’apertura di una sede di corrispondenza in Corea del Nord. Dopo l’Associated Press (Ap), dunque, l’Afp sarà la seconda grande agenzia mondiale a mettere una bandierina a Pyongyang, dove avrà un ufficio nella sede della Kcna. Una scelta inevitabile, dato che l’Ap opera in Corea del Nord già dal 2012, e che, pur con limiti evidenti dal punto di vista giornalistico (l’esperienza dell’Ap ha aperto il dibattito sulla deontologia tre anni fa), andrà a vantaggio della qualità, sempre più scadente, delle informazioni che circolano sul paese.

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