In Iran il vento delle proteste soffia in modo nuovo
Stavolta il vento di rivolta soffia in modo diverso. Indubbiamente negli ultimi anni la crisi economica che attraversa il paese ha provocato manifestazioni popolari a intervalli sempre più regolari. Nel 2017 gli iraniani erano scesi in strada per protestare contro l’aumento del costo della vita a fronte della svalutazione del riyal. Due anni dopo era stata una riforma dei sussidi che, facendo schizzare il prezzo dei carburanti, aveva spinto le persone a manifestare. Da allora, mobilitazioni puntuali e localizzate si sono moltiplicate per rivendicare maggiori diritti per impiegati e operai, o un migliore accesso all’acqua per gli agricoltori della regione di Isfahan.
Alle rivendicazioni socioeconomiche di una popolazione fino ad allora considerata un pilastro del sostegno popolare al regime si mescolano incessantemente critiche dirette a quello stesso regime, alla sua cattiva gestione, e alla sua corruzione. A dispetto del suo discorso incentrato sulla rappresentazione e la difesa della gente comune contro la borghesia, la repubblica islamica non esita però ad attivare il suo ben oliato sistema repressivo per sopprimere questa serie di movimenti.
Ora è stata la morte di Mahsa Amini, la giovane arrestata dalla polizia religiosa per aver indossato l’hijab “in modo inappropriato”, a scatenare le contestazioni. Culmine di una serie di arresti violenti compiuti dalle “pattuglie della moralità” contro le donne che non rispettavano i codici di abbigliamento, questo episodio ha suscitato una forte emozione.
Il fattore scatenante è sociopolitico
Anche se in prima linea si mobilitano le donne e gli studenti, molti uomini si sono uniti alle manifestazioni che mettono al centro della contestazione uno dei pilastri dell’autorità e dell’identità politico-religiosa della Repubblica islamica: il velo. Non solo alcune manifestanti hanno bruciato il loro hijab in segno di protesta, ma in alcuni casi sono state anche attaccate le forze dell’ordine al grido di “Morte al dittatore”, riferendosi alla guida suprema, le cui effigi sono state squarciate. “Dato che l’elemento scatenante questa volta è socioculturale e politico l’attuale sollevazione è piuttosto paragonabile al movimento verde del 2009”, sostiene Ali Fathollah-Nejad, ricercatore associato presso l’Issam Fares institute dell’università americana di Beirut. Poiché rappresentava una delle più grandi minacce dirette alla Repubblica islamica dalla sua istituzione, quel movimento aveva generato manifestazioni di massa convocate dal riformista Mir-Hossein Mussavi, sfortunato candidato alle presidenziali, per denunciare l’elezione di Mahmud Ahmadinejad, considerata frutto di brogli.
Fino a poco tempo fa la classe media, assetata di libertà, si differenziava nelle sue rivendicazioni dalle classi più povere che chiedevano pane
A differenza del movimento verde, concentrato soprattutto a Teheran e nelle università, le proteste attuali si estendono a tutto il paese, da Isfahan a Rasht, sulle rive del mar Caspio, passando per il Kurdistan iraniano nell’ovest, da cui proveniva la ventenne elevata a simbolo della repressione del regime.
“Le manifestazioni innescate dalla morte di Mahsa Amini riflettono una collera ben più ampia della popolazione rispetto al quadro giuridico discriminatorio che colpisce in modo sproporzionato le donne, le minoranze etniche e religiose e altri gruppi marginalizzati in Iran”, osserva Gissou Nia, presidente del consiglio dell’Iran human rights documentation center e direttrice del programma Strategic litigation project presso l’Atlantic Council.
D’altra parte, fino a poco tempo fa la classe media, assetata di libertà, si differenziava nelle proprie rivendicazioni dalle classi più povere che chiedevano pane. Le sanzioni imposte da Donald Trump dopo aver fatto uscire gli Stati Uniti nel 2018 dall’accordo nucleare hanno tuttavia aggravato la crisi economica che colpisce gli iraniani. Alla fine di agosto, nonostante su questo tema si imponga solitamente discrezione, durante una conferenza stampa il presidente Ebrahim Raisi si è lasciato scappare che l’inflazione annuale era superiore al 40 per cento. “Le condizioni attuali in Iran suggeriscono una tendenza a unificare i due gruppi sociali: la classe media si è impoverita nel corso degli ultimi anni, mentre i ceti più poveri sembrano essere meno conservatori rispetto a prima, o rispetto a quel che solitamente si pensa”, osserva Ali Fathollah-Nejad.
Repressione e voci di dissenso
L’alleanza tra le classi può far vacillare il regime? Nel suo discorso all’Assemblea generale dell’Onu a New York il presidente iraniano non ha accennato alle manifestazioni in corso, sebbene siano state rilanciate da tutti i grandi mezzi d’informazione internazionali. Al centro del suo viaggio c’erano il dossier nucleare e la revoca delle sanzioni internazionali a esso legati, mentre i negoziati di Vienna sono nuovamente a un punto morto dopo le richieste iraniane giudicate inaccettabili dagli statunitensi. Diversi analisti avevano previsto che la repressione avrebbe avuto un’accelerata dopo il rientro del capo dello stato a Teheran il 23 settembre. Dopo la morte della ragazza e le prime manifestazioni, internet è stato parzialmente sospeso e poi ripristinato in diverse zone del paese. Il sito specializzato NetBlocks parla della più vasta interruzione di internet dopo le proteste di massa del 2019. All’epoca una settimana di black-out digitale era sfociata in più di 300 morti tra i manifestanti secondo le stime di Amnesty international.
Nonostante il suo apparato di sicurezza ben rodato, il regime di Teheran sembra mostrare un certo affanno nell’affermare la sua autorità politico-religiosa, mentre circolano voci sul peggioramento delle condizioni di salute della guida suprema Ali Khamenei che ha 83 anni. La questione della sua successione è sulla bocca di tutti e potrebbe contribuire a ridefinire l’orientamento futuro della Repubblica islamica.
Le elezioni presidenziali del 2021 avevano già portato alla luce i dissensi interni ai circoli del potere dell’élite conservatrice, tanto che una parte di questa, considerata troppo moderata, era stata tagliata fuori dalla guida suprema a vantaggio di Ebrahim Raisi. Alcune voci istituzionali hanno osato sollevarsi per criticare la polizia religiosa, rafforzata dal presidente dopo la sua ascesa alla carica e considerata da molti responsabile della morte di Mahsa Amini. Alcuni parlamentari hanno infatti invocato una riforma dei metodi applicati, o addirittura la soppressione di questa unità delle forze dell’ordine. L’ayatollah Asadollah Bayat Zanjani, importante figura religiosa contraria al regime del velayat-e faqih, ha definito “illegali, irrazionali e illegittimi … l’insieme dei comportamenti e degli eventi che hanno causato questo sfortunato e deplorevole incidente”.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Questo articolo è uscito sul giornale libanese L’Orient-Le Jour.