Qualche giorno prima dell’inizio del Festival di Cannes è apparso su Le Monde, sotto il titolo “A Cannes, les femmes montrent leurs bobines, les hommes, leurs films” (A Cannes le donne mettono in mostra le loro “bobine”, gli uomini i loro film’), un [articolo][1] firmato da tre donne protagoniste del cinema francese, Fanny Cottençon, Virginie Despentes e Coline Serreau, per conto del collettivo d’azione femminista [La Barbe][2]. Faccio una traduzione a braccio del primo paragrafo, anche perché mi sembra un bell’esempio di scrittura polemica che distribuisce alla perfezione le sue dosi di rabbia e ironia.
“Cos’è cambiato nel mondo del cinema? Tutto!”, ha esclamato Gilles Jacob, presidente del Festival di Cannes, in occasione della presentazione dei film selezionati per la 65a edizione. Tutto? Per un instante, abbiamo sperato. Ma ci sbagliavamo: perché i ventidue film della selezione ufficiale sono stati realizzati, guarda caso, da ventidue uomini. Dunque per la sessantatreesima volta il Festival coronerà un uomo, difendendo così, immancabilmente, quei valori virili che fanno la noblesse della settima arte.
La risposta di Thierry Frémaux, delegato generale (ovvero direttore artistico) del Festival, non è tardata ad arrivare. “Il Festival di Cannes”, ha risposto, “non metterà mai in programma un film solo perché è stato realizzato da una donna. Una tale scelta porterebbe a una politica di quote”. Aggiunge che non c’è dubbio che la presenza delle donne nel cinema deve andare aumentando, ma “non è a Cannes, nel mese di maggio, che si pone il problema; bisognerebbe porselo tutto l’anno”.
Mi sono ricordato della polemica (sollevata ben otto giorni fa – un’eternità nella vita di un festival) vedendo uno dei film di questi ventidue registi maschi in concorso: Paradies: Liebe dell’austriaco Ulrich Seidl.
Ho sempre trovato Seidl un regista cattivo. Non perché gira dei film di scarsa qualità: intendo cattivo di natura. Basta vedere un film come Import/Export (2007) per rendersi conto che vede noi poveri umani come degli insetti da torturare. Ma i suoi film non sono privi di pathos. Ed è proprio questa loro doppia natura, credo, che mi affascina.
Era chiaro fin dall’inizio che Paradiso: Amore non poteva che essere un titolo ironico. Il film segue una donna austriaca un po’ sciatta, sui cinquant’anni, che va in vacanza in Kenya per trovare un’amica. Alloggiano in un resort sulla spiaggia dove un cordone separa la zona dei turisti europei – tutti bianchi – dalla parte della spiaggia dove dei venditori ambulanti aspettano nella speranza che qualcuno abbia il coraggio di varcare la linea, che è pattugliata dalle guardie del resort. Però queste due donne sono venute in Kenya, come molte altre, proprio per varcare una soglia: per trovare un giovane amante keniota che le faccia sentire giovani e belle.
Inevitabilmente (trattandosi di un film di Seidl), la protagonista finirà col sentirsi delusa e umiliata dai due beach boys locali con i quali tenta di instaurare un rapporto civile – civile nel senso che comporta del sesso, ma che non è basato esclusivamente sui soldi. Verrà spennata dai suoi gigolò. E per consolarla, nel giorno del suo compleanno, la sua amica, con l’aiuto di altre due austriache che hanno conosciuto, le ingaggia uno spogliarellista keniota il quale a sua volta viene sottoposto a una serie di umiliazioni sessuali.
È una sorta di rivincita conto i sogni infranti di un paradiso africano dove ebony e ivory convivono in perfetta armonia, come nella canzone insulsa di Paul McCartney e Stevie Wonder del 1982. E anche una guerra di logoramento fra sfruttatori e sfruttate, sfruttatrici e sfruttati. Metafora del colonialismo? Può darsi – Seidl è un maestro di accenni simbolici del tipo “prendere o lasciare”.
Seidl spinge le sue attrici (che vengono quasi tutte da esperienze teatrali di provincia) a svestirsi, improvvisare scene di nudo, avventurarsi là dove molti attori famosi non andrebbero mai. Il loro sconforto diventa il nostro sconforto – un po’ come nel caso di un film come Borat, ma in chiave molto meno comica.
Per tornare allo spunto iniziale, non so se si può dire che Seidl vuole umiliare le donne con questo film. Il regista umilia anche gli uomini, mettendo impietosamente a nudo tutta la loro meschinità – anche se i loro corpi appaiono perfetti accanto a quelli grassi e flaccidi delle loro sugar mummies (provate a cercare le parole “Kenya” e “sugar mummy” su Google: escono fuori un sacco di siti con consigli, domande e offerte di lavoro).
Ma pur distribuendo le sue torture equamente fra i due sessi, Paradies: liebe propone comunque una varietà di machismo culturale. Fa parte di un sistema di cinema d’autore in mano a una coterie di cineasti che sono quasi tutti uomini bianchi ultraquarantenni (faccio presente, per correttezza, che anch’io rientro in questo gruppo demografico).
E fermo restando che sì, ci vorrebbero più donne nel cinema, il problema della posizione di Frémaux citata sopra sta nel presupposto che la qualità di un film (che assicura la partecipazione a un concorso prestigioso come quello di Cannes) sia una cosa oggettiva, non un giudizio influenzato dal gruppo culturale alla quale apparteniamo. Personalmente non sono affatto convinto che abbia ragione.
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