La sera del 19 aprile 1989, una donna bianca newyorchese che faceva jogging a Central park fu aggredita, violentata e ridotta in fin di vita. Quella stessa sera un gruppo di ragazzi neri era andato nel parco a fare casino. Venivano da quartieri poveri come Harlem ed erano arrivati fin lì per tirare sassi, molestare i passanti e fare confusione.
Alcuni di questi ragazzi, che avevano tra i 14 e i 16 anni, furono fermati dalla polizia e portati in commissariato in seguito a una serie di denunce. Una coppia che passeggiava nel parco in tandem era stata aggredita, un barbone era stato picchiato. Erano fatti seri ma non gravi. Trattandosi di minorenni, questi episodi da soli probabilmente gli sarebbero costati un arresto e la libertà su cauzione oppure una multa.
Poi, però, due passanti trovarono la donna violentata, ormai priva di sensi. E la posizione dei ragazzi si aggravò. Dopo un’interrogatorio durato tutta la notte, senza la presenza di avvocati e con i genitori ammessi solo all’ultimo momento, cinque ragazzi confessarono, davanti a una videocamera, di aver commesso lo stupro. Gli investigatori gli avevano promesso che, se avessero confessato, sarebbero tornati a casa.
Invece, dopo un lungo processo accompagnato da articoli isterici dei mezzi d’informazione – i giornali li chiamarono “un branco di lupi” –, i cinque ragazzi sotto accusa furono spediti in prigione con delle sentenze comprese tra i sei e i tredici anni. Il fatto che non c’erano tracce del loro dna sulla vittima (fortunatamente sopravvissuta all’aggressione) e che le confessioni non combaciavano fu ritenuto irrilevante dalla giuria. Tutti erano convinti che nessuno avrebbe confessato un crimine che non aveva commesso.
Invece sì. C’è tutta
una serie di studi sulla psicologia delle confessioni false. Già all’epoca il fenomeno era noto alla magistratura degli Stati Uniti e alle forze dell’ordine: avrebbero dovuto sapere che, in questi casi, i ragazzi sono particolarmente suggestionabili.
Anni dopo, un uomo che era già in prigione per stupro e omicidio confessò l’aggressione di Central park. Il dna corrispondeva. Il suo racconto su quello che era successo quella notte era preciso in ogni dettaglio. Cinque ragazzi innocenti avevano passato degli anni in carcere perché, in un clima di allarme criminalità e di razzismo nascosto sotto l’atteggiamento politically correct delle autorità e della stampa (che non hanno mai usato la parola “neri”), la polizia aveva preso due fatti separati e li aveva incollati in una narrativa investigativa che era diventata una macchina inarrestabile.
La storia è raccontata con grande pathos e rigore in un documentario passato ieri fuori concorso a Cannes, The Central park five. Ve lo consiglio vivamente, perché non è solo la cronaca di un grave errore giudiziario. È anche un appello al rigore investigativo in tutti i campi della vita e una denuncia dei pregiudizi. E ci ricorda che i fatti e il racconto dei fatti sono due cose diverse.
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