Il Regno Unito sta entrando in fibrillazione per il Diamond jubilee: quattro giorni di eventi in tutto il paese per celebrare i sessant’anni sul trono della regina Elisabetta.
Nei giorni scorsi, la stampa britannica è stata prodiga di consigli su, per esempio,
cosa indossare oppure che brani musicali mettere ai street parties organizzati in tutto il paese da comitati locali per questa domenica, 3 giugno. Perfino il Guardian, quotidiano da sempre aperto a posizioni repubblicane, dedica uno slideshow ai sessant’anni di stile della regina Elisabetta.
E, miracolo dei miracoli, solo per sabato 2 e domenica 3 giugno Rupert Murdoch celebra l’occasione regalando l’accesso gratuito al sito del Times e del Sunday Times, facendoli uscire dal *paywall *che li nasconde dal 2010. Giusto il tempo per verificare quanto siano caduti in basso rispetto a quel pilastro del giornalismo anglosassone serio e autorevole che rappresentavano una volta.
Da giovane ero repubblicano convinto, militante. Nel 1977, quando avevo 15 anni, ho portato il mio 45 giri di God save the Queen dei Sex Pistols allo street party che era stato organizzato nel mio quartiere per festeggiare i 25 anni della regina. L’idea era, con l’aiuto di un mio amico, di fare una specie di attentato sonoro, impossessandoci del giradischi e sparando il brano a tutto volume. Essendo poco esperti di questo tipo di agguato, però, abbiamo fatto vedere un po’ troppo in giro il prezioso vinile, che avevo comprato quella stessa mattina.
A un certo punto alcuni amici dei miei genitori mi hanno chiesto se potevo mettere il disco perché erano interessati a sentirlo. Era stato messo al bando dalla Bbc, che in quegli anni senza internet, almeno a Bristol dove non c’erano tv private, significava che potevi ascoltarlo solo se eri in possesso del vinile. Un’idea che in questi tempi di iTunes, YouTube e Spotify suona molto strana.
I presenti hanno ascoltato con interesse Johnny Rotten intonare parole come “God save the Queen – a fascist regime”. Qualcuno ha cominciato a battere i piedi a tempo. Dopo, mi hanno ringraziato: “Interesting”, dicevano. Che delusione. Mi sentivo come un palloncino sgonfiato. Invece di épater les bourgeois, li avevo incuriositi. Ero stato cooptato dal sistema, infilzato dallo spiedino del fair play inglese.
Oggi sono ancora repubblicano, ma con gli anni non riesco più a ritrovare la rabbia che sentivo da giovane quando pensavo al fatto che il capo di stato del mio paese basi il suo mandato sul fatto di essere nato in una determinata famiglia in un determinato momento.
Forse perché, tutto sommato, Elisabetta non ha sfigurato come rappresentante di quest’istituzione antiquata e anti democratica. Non si può dire lo stesso per alcuni altri membri della sua famiglia (tra le gaffe citate in questo articolo di Time, la mia preferita è l’intramontabile principe Filippo che chiede a un ricco uomo d’affari della comunità aborigena australiana: “Do you still throw spears at one another?”, “Vi lanciate ancora le lance a vicenda?”).
E poi, in questo clima di crisi, forse non guastano qualche flotilla sul Tamigi, un paio di fuochi d’artificio e un pretesto per ubriacarsi.
Trovo deprimente, comunque, il fatto che il dibattito repubblicano sia così marginale, oggi, nel Regno Unito. Quasi quasi mi viene voglia di mettermi in aereo per partecipare alla protesta organizzata dall’associazione anti monarchica Republic a Tower Bridge.
E se invece (come pare più probabile) rimango in Umbria a coltivare il mio giardino, vi posso promettere almeno una cosa. Non guarderò in tv o sui vari siti inglesi neanche un secondo dei festeggiamenti. Non come è successo quando cominciai a guardare ironicamente il matrimonio di William e Kate per poi rimanere incollato allo schermo per due ore.
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