Vi ricordate la strage del Cermis? Il 3 febbraio 1998, durante un volo di addestramento, un aereo militare statunitense il cui pilota si stava probabilmente cimentando in una prova di abilità, a quota molto inferiore a quella consentita, tranciò le funi di una funivia in Val di Fiemme. Una cabina precipitò al suolo, causando la morte di venti persone. Nonostante la richiesta dei pubblici ministeri di processare i quattro militari dell’equipaggio in Italia, la giurisdizione della giustizia militare statunitense fu riconosciuta sede competente in base alla Convenzione di Londra sui militari della Nato.
Il risultato? Nel marzo del 1999 tutti e quattro furono assolti dal tribunale militare statunitense di Camp Lejeune, che ha creduto alla linea sostenuta dalla difesa e cioè che la funivia non era segnata sulle loro carte e che l’altimetro di bordo non funzionava. Solo in seguito, quando trapelò che un video girato durante il volo era stato distrutto, il pilota e il navigatore furono degradati e rimossi dal servizio. Inoltre il pilota fu condannato a sei mesi di prigione, ridotti a quattro per buona condotta.
Io non sono italiano, ma mi ricordo ancora la rabbia che provai all’epoca per la mancanza di una seria attribuzione di colpa che servisse a risarcire almeno moralmente i familiari delle vittime.
Ora dovete spiegarmi perché il caso dei due marinai italiani accusati dell’omicidio di due pescatori indiani scambiati per pirati sia diverso da quello dei militari statunitensi del Cermis.
La rabbia che gli italiani hanno provato allora (ma anche i tedeschi, belgi, olandesi, austriaci e polacchi, persone di altre nazioni di cui erano cittadini le venti vittime della strage) era legata anche al sospetto di essere stati ritenuti un paese con un sistema giudiziario che non avrebbe garantito un processo equo. All’epoca questo pensiero degli Stati Uniti non fu mai espresso apertamente, si nascondeva dietro a trattati e convenzioni, ma è tornato alla ribalta, questa volta più apertamente, durante il
Venendo meno alla promessa di far tornare in India Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, lo stato italiano ha rinunciato al rispetto dovuto a un paese che cerca di risolvere le controversie in un modo civile, in linea con la legge internazionale. Quando fu concessa ai due militari la licenza per tornare in Italia a votare (ma non avevano il diritto di voto dall’estero?), l’ambasciatore italiano, Daniele Mancini, firmò davanti alla corte suprema indiana una dichiarazione giurata a garanzia del rientro dei marinai entro il 22 marzo. I casi sono due: o l’ha fatto sapendo di mentire, oppure (più probabile) la Farnesina, annunciando a sorpresa la sua decisione di non far rientrare Latorre e Girone, gli ha fatto fare una figura di merda.
La rabbia delle autorità indiane, della stampa indiana, dei familiari delle vittime davanti a questo atto di vigliaccheria è facile da capire e da condividere. È la stessa rabbia che gli italiani provarono il giorno della sentenza sulla strage del Cermis: una rabbia nata da una sensazione di essere stati presi in giro.
E poi, pur ammettendo la tesi della Farnesina che la nave Enrica Lexie si trovava in acque internazionali al momento dell’incidente e che la giurisdizione non spettava quindi alle autorità indiane, sarebbe una controversia da risolvere in altre sedi e in altri modi.
Attenzione: nessuno contesta il fatto che i due pescatori sono morti perché Latorre e Girone hanno sparato in direzione della loro barca. Ecco quanto dichiarato da Staffan De Mistura, sottosegretario agli esteri, alla stampa indiana il 18 maggio 2012: “La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo”.
Mettiamoci nei panni dell’opinione pubblica indiana. A questo punto, davanti a promesse non mantenute e strumentalizzazioni di stampo nazionalpopolare, dev’essere proprio difficile pensare che il caso sarà risolto dalla giustizia italiana in modo equo.
E se invece fosse tutto un accordo segreto tra Italia e India, che accetta il mancato rientro dei due militari in cambio di carte dell’inchiesta italiana sulle presunte tangenti pagate per la commessa di 12 elicotteri Agusta Westland all’aviazione indiana? Con contorno di “incidente diplomatico” per depistare i sospetti di inciucio?
Prima di tutto, non ci credo più di tanto. Secondo, finché l’accordo rimane segreto, il fatto che l’Italia stia facendo una brutta figura a livello internazionale non cambia di una virgola.
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