Quando si sente la forza di gravità, al cinema? Quando cominciano a scorrere i titoli di coda. Oppure quando (come nel caso di questo thriller spaziale con Sandra Bullock e George Clooney) bisogna riconsegnare gli occhiali 3D. A dire il vero nel film Gravity di Alfonso Cuarón, che ha aperto (degnamente) la settantesima Mostra del cinema di Venezia, la discesa verso Terra è assecondata da qualche forzatura emotiva di troppo (ma cavolo, c’è mai stata in un film hollywoodiano una donna di successo che non si sia buttata in un lavoro da maschi dopo aver subìto un trauma legato alla maternità e/o all’amore?).
Ma complessivamente
Gravity è un esempio riuscito di film d’azione di un certo spessore. Soprattutto, direi, nella sua visione dello spazio più vicino a noi, quello in cui orbitano le varie stazioni spaziali e i satelliti, e che ci viene presentato come un mondo non più magico (o magico solo negli scorci della Terra che offre) ma in declino, colonizzato da navicelle supertecnologiche che, dal momento che cominciano a perdere pezzi, non sono altro che ferri vecchi pericolosi.
È una favola spaziale degna dei nostri tempi, su un mito in crisi. Il personaggio di Clooney, un astronauta navigato e un pochino disincantato che si definisce un semplice autista, è più interessante della già vista, già ampiamente riciclata ingegnere informatico interpretata da una Sandra Bullock palestrata, una geek girl che è (inevitabilmente) interiormente fragile.
Poi in apertura delle Giornate degli autori è passato un bel film francese, La belle vie (titolo solo in parte ironico) che fonde elementi di Huckleberry Finn e La morte corre sul fiume nella storia di un ragazzo sequestrato dal padre e costretto a vivere nella clandestinità.
More tomorrow, perché devo mettermi in fila per il prossimo film…
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