Non capisco il caso Cancellieri. Cioè, credo di capirlo benissimo. Quello che non capisco è la piega che ha preso la vicenda, una piega in cui si punta tutto sull’onore, l’integrità e la coscienza della ministra della giustizia.
Dal poco che so di lei, Annamaria Cancellieri mi sembra una persona con un maturo senso dello stato e che rispetto ad altre figure politiche italiane degli ultimi tempi cerca di svolgere il suo lavoro per migliorare quello stato, almeno secondo la sua concezione personale di quello che è un miglioramento. Si può non essere d’accordo con il suo operato, ma sarei sorpreso di scoprire che è disonesta.
Non dubito neanche che Cancellieri sia una persona onorevole. Lo dice lei stessa. Nella lettera che ha diffuso agli organi di stampa il 15 novembre dopo le nuove rivelazioni apparse su Repubblica delle numerose telefonate fra Sebastiano Peluso, suo marito, e l’amico di famiglia Antonino Ligresti, la ministra scrive con indignazione: “Mi rifiuto di vedere il mio onore appannato”.
Il problema, però, è che in questa vicenda l’onore non c’entra. Perché se un ministro della giustizia telefona all’amica, moglie di un imputato, lo stesso giorno che è stato arrestato e le dice (cito testualmente): “Se tu vieni a Roma, proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti guarda non, non è giusto, guarda non è giusto”, allora come minimo ha infranto una regola di comportamento parlamentare. La questione è se questo dovrebbe bastare per offrire le dimissioni in un paese in cui ci sono politici coinvolti in vicende, anche giudiziarie, di natura molto peggiore. Personalmente, credo di sì.
Perché è logorante vivere in un paese in cui il bianco e nero deve sfumare sempre in cinquanta toni di grigio etico-emozionali. È deprimente vivere in un paese in cui l’ultima difesa rimane sempre quella di gridare al complotto, come traspare dall’ultima dichiarazione della ministra: “Qui c’è un accanimento che non ha limite, c’è un disegno che non comprendo”.
Non voglio paragonare il caso Ligresti alla guerra in Iraq, ma a proposito dell’uso improprio della carta della “coscienza a posto” mi viene in mente la difesa di Tony Blair davanti alle accuse di aver autorizzato l’invasione dell’Iraq del 2003 pur sapendo che Saddam Hussein aveva una quantità minima di armi di distruzioni di massa (ora, grazie alla
Chilcot inquiry, si sa che in quel momento Blair era in possesso di documenti che gli indicavano che la Libia aveva un arsenale molto più pericoloso). La risposta di Blair a chi gli rinfaccia questa leggerezza (chiamiamola così) è sempre stato che lui pensava, e pensa tuttora, che l’entrata in guerra fosse la cosa giusta.
Ed ecco il nesso. Quello che uno ritiene sia la cosa giusta, e quella che è la cosa giusta secondo la legge (nazionale, internazionale, ma anche quella non scritta di etica parlamentare), sono due cose diverse, soprattutto per un politico che deve dare l’esempio a tutti. In questa vicenda non mi interessa la coscienza di Annamaria Cancellieri: mi interessa quello che ha fatto e quello che ha detto.
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