Sono stato interpellato l’altro giorno dalla trasmissione Tutta la città ne parla, su Rai radio 3, per dare il mio parere su come il premio Oscar ottenuto da La grande bellezza riflette l’immagine dell’Italia nel mondo.

Il dibattito era nato dalla telefonata di un’ascoltatrice preoccupata che il film di Paolo Sorrentino potesse trasmettere un’idea negativa del Bel paese. Davanti a questo strano turbamento mi è tornata in mente la critica mossa al film Gomorra dall’ex modella Afef Jnifen, in una videointervista rilasciata a La Repubblica quando la pellicola di Matteo Garrone era stata selezionata per il festival di Cannes, nel 2008: “Vorrei che i nostri panni sporchi si lavassero in famiglia… Vogliono sempre farci vedere come delinquenti, incapaci, immondizia… Appena abbiamo qualcosa che non va la stampa estera si diverte”.

Chissà se Boccaccio ha dovuto affrontare delle critiche simili a metà del trecento per avere ambientato il

Decamerone sullo sfondo della peste che imperversava a Firenze?

Che La grande bellezza offra un ritratto negativo dell’Italia è già un fatto opinabile. Senza dubbio, il film delinea il vuoto etico, politico e creativo di una cricca culturale mondana e sempre più irrilevante, in una Roma che si nutre vampiricamente sulle sue glorie passate, della dignità umana, dei corpi e perfino delle vite dei più deboli. Ma non sottovalutiamo l’attrattiva di questa decadenza romana per il pubblico straniero: è un filone che può vantare una lunga e fortunata tradizione, dalla Storia del declino e della caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon in poi. Ricordo anche la frase di Gore Vidal nel film Roma di Fellini: “Quale città migliore per vedere la fine del mondo?”. C’è già chi ha cominciato a offrire dei tour privati nei luoghi di La grande bellezza. Anche se personalmente un giro in una electric golf cart non mi sembra molto da Jep Gambardella.

So poi che non tutti la pensano come Afef o come la radioascoltatrice di cui parlavo. Credo che la maggioranza degli italiani sarebbe d’accordo con me quando dico che quello che conta di più per l’immagine di un paese all’estero - a livello di prodotti culturali, ma anche enogastronomici, scientifici, tessili, automobilistici - è la qualità. Il collega Steve Della Casa, interpellato anche lui dalla trasmissione condotta da Giorgio Zanchini, ha detto giustamente che il più delle volte quando un film italiano viene confezionato su misura per l’export - come nel caso di Malena di Giuseppe Tornatore - non sfonda. Anzi, un film bruttino e pieno zeppo di cliché come Malena (adesso sono io a parlare, non Della Casa) fa molti più danni all’immagine dell’Italia di un film bello che parla di fatti brutti.

Per inciso, la filmografia precedente di Sorrentino offre un esempio rivelatore della tesi di Della Casa. Il Divo - un film geniale su un uomo politico italiano che molti americani conoscono solo vagamente - negli Stati Uniti ha incassato quasi il doppio rispetto all’originale ma sconnesso This must be the place, nonostante il doppio richiamo dei dialoghi in lingua inglese e della presenza di Sean Penn nel ruolo principale.

Ma anche se la paura della radioascoltatrice per i danni d’immagine che La grande bellezza potrebbe recare è infondata, l’insicurezza esistenzial-nazionale che sta dietro alla domanda “che penseranno di noi all’estero?” è una sindrome che ho incontrato più volte nei miei quasi trent’anni in Italia. Certo, non è del tutto assente in altri paesi, ma qui si manifesta in una forma particolarmente cronica (difficile immaginare un inglese che si preoccupa dell’immagine del paese diffusa dai film di Ken Loach, o un francese turbato da quello che gli americani penseranno del suo paese dopo aver visto, che ne so, La haine oppure Irréversible).

La sindrome si esprime in due modi: il risentimento verso le critiche da parte degli stranieri e l’amplificazione dei riconoscimenti. “L’Italia ha vinto l’Oscar”, era il titolo scelto da Repubblica.it la mattina dopo gli Academy awards, come se di premi Oscar ce ne fosse solo uno. Ignorando il fatto (vergognoso, ma questo sarebbe da approfondire in un altro post) che il premio per il miglior film straniero è un ghetto, un accenno nominale al resto del mondo da parte di un evento inventato dal cinema statunitense per premiare il cinema statunitense.

Ma per non lavare i panni sporchi altrui, lascio la parola finale a uno dei miei scrittori italiani preferiti, Ennio Flaiano, che con finezza e ironia ha fissato la schizofrenia di un paese combattuto tra bisogno di affezione e rigetto delle critiche in uno dei passaggi più lapidari di Diario notturno (siamo nel 1948):

“Davanti a un caffè di via Veneto due fotografi americani prendono istantanee della gente troppo benvestita che si gode il sole. Passano poi a fotografare i mendicanti che stazionano sulla porta del caffè. Disapprovazione dei presenti. Escono tre giovani, pretendono che i fotografi si allontanino, non vogliono offese all’amor patrio. La gente applaude. Si dicono frasi sul ‘popolo italiano’, i fotografi vengono invitati a tornare al loro paese, a lasciarci alla nostra ‘dignitosa miseria’. I mendicanti approvano, non smettono tuttavia di chiedere l’elemosina, benché con aria più dignitosa di prima, anzi un po’ nazionalista. Dopotutto – sembra vogliono dire – i mendicanti italiani sono i migliori del mondo”.

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