Il settimo giorno dio si riposò. Si vede che non era mai stato al festival di Cannes. Qui bisogna reggere il passo per dieci giorni, con film che cominciano alle 8.30 in punto e finiscono dopo mezzanotte. Tutti imperdibili, naturalmente, nel senso che molti sono deludenti ma ci vai perché c’è sempre il rischio di perdere quello imperdibile. Verso la fine, i colpi di tosse e gli starnuti in sala si moltiplicano. Poi, quando si alzano, i giornalisti girano con passo da zombie, con gli occhi rossi. E il fatto che mentre scrivo sta piovendo a dirotto non aiuta.

I film cominciano a fondersi, a mescolarsi, come quando sbagli la temperatura dei colorati in lavatrice.

I lottatori olimpici della bella, cupa tragedia americana Foxcatcher si confrontano con i pugili dilettanti di Jimmy’s Hall, un Ken Loach d’annata, basato sulla storia vera di un comunista irlandese che nel 1932 è tornato dagli Stati Uniti nella sua comunità rurale e ultracattolica per rifondare una sala da ballo che funge anche da palestra per il corpo, la mente e la coscienza di classe. Per la gioia del prete locale e i proprietari terrieri, ovviamente.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

La metamorfosi di una cameriera d’albergo in Bird people della regista francese Pascale Ferran – il film con il colpo di scena più inaspettato del festival – si trasforma nella lunga odissea di un padre perso che cerca una figlia persa in un paese lontano, forse un paese immaginario, nel calvinesco Jaula del maestro argentino dello “slow movie”, Lisandro Alonso, con Viggo Mortensen nel ruolo principale.

Il Robert Pattinson autista bonario di Maps to the stars si sovrappone al Robert Pattinson bifolco ritardato del tosto, atmosferico noir apocalittico The rover di David Michôd, quello di Animal kingdom.

Dalla melma degli ultimi giorni spuntano due titoli. Anzi tre, se si include Deux jours, une nuit dei fratelli Dardenne, che racconta la storia di Sandra, una lavoratrice belga che sta per perdere il suo lavoro in una piccola ditta non sindacalizzata. La sua unica possibilità per mantenerlo è convincere i suoi colleghi a rinunciare al loro premio annuale di mille euro. Ma non è una sorpresa che un film dei Dardenne sia bello, commovente, engagé. L’unica sorpresa forse è la presenza di Marion Cotillard nel ruolo principale. Una scelta controcorrente per i fratelli, che di solito privilegiano gli attori meno famosi, o non professionisti. Ma scelta è vincente: è un parafulmine di emozioni.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Torniamo ai due titoli di cui parlavo prima. Mommy di Xavier Dolan, regista canadese da prendere a schiaffi perché a 25 anni è in concorso a Cannes con il suo quinto lungometraggio. E anche perché, al quinto tentativo, ha fatto un film proprio bello. Come tutti i film di Dolan, e come Incompresa di Asia Argento (migliore rispetto alle mie attese), è un film che racconta la storia di un figlio incompreso e maltrattato dai genitori – o meglio, nel caso di Dolan, dalla madre separata che la manda in collegio. Ma da questo materiale da psicanalisi Dolan ha tratto un film con un’energia particolare.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Per prima cosa colpisce il formato dell’immagine: tutta l’azione si svolge dentro un quadro perfetto, una scatola stretta che costringe i suoi personaggi in una vicinanza esplosiva. Colpisce anche la figura un po’ trash ma anche piena di vita della madre, interpretata da Anne Dorval. Il film è la storia del rapporto conflittuale, ma anche pieno d’amore, fra una donna e il figlio sedicenne fuori controllo (il sindrome da deficit d’attenzione è solo uno dei suoi problemi), e dalla vicina timida e repressa che viene attratta da questa famiglia pazza.

Scrivendo queste parole, mi vengono in mente i bracieri della piazza di Kiev che danno il nome a Maidan, il migliore documentario che ho visto in questa edizione del festival. A metà dicembre del 2013, una quindicina di giorni dopo l’inizio dell’occupazione della piazza contro la politica filorussa e la corruzione del presidente Viktor Janukovič e il suo governo, il regista ucraino Sergei Loznitsa è sceso fra i manifestanti con una troupe e c’è rimasto fino alla fuga di Janukovič, verso la fine di febbraio.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

La televisione e YouTube ci hanno abituato a vedere dei filmati spezzettati, granulosi, convulsi, di rivolte e dimostrazioni. Loznitsa ha un approccio diverso. Gira da una cinepresa fissa, in alta risoluzione, delle scene di cinque o sei minuti l’una, e le monta senza voce narrante. Abbiamo tutto il tempo per notare i dettagli umani, commoventi ma anche a volte buffi, di un pezzo di storia che, come molti pezzi di storia, non è solo una questioni di morti e feriti, ma di volontari che sbucciano patate, fabbri che costruiscono barricate. In una scena si vede un’anziana signora che si ferma a rimproverare una ragazza che sta passando dei sassi in una catena umana, da usare come missili.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it