A qualche ora dalla cerimonia di chiusura del festival di Cannes 2016, ecco un breve riassunto, personale ma non troppo, di una delle edizioni migliori che io mi ricordi.

1. Un’edizione eccezionale

È stato il concorso più interessante degli ultimi dieci anni, forse il migliore dal 2002 per quanto riguarda la qualità media dei film in concorso. In quell’edizione d’oro parteciparono, tra gli altri, Il pianista (Polanski), Bowling for Columbine (Moore), Le fils (fratelli Dardenne), L’ora di religione (Bellocchio), Arca russa (Sokurov) e Ten (Kiarostami). Quest’anno, i film che metterei sullo stesso piano, facendo una scommessa sul giudizio dei posteri, sono almeno cinque: Toni Erdmann (Ade), Paterson (Jarmusch), Aquarius (Mendonça Filho), Bacalaureat (Mungiu) ed Elle (Verhoeven). L’unico vero fiasco è stato The last face di Sean Penn.

2. Il ricambio generazionale

A Cannes di anno in anno si afferma il merito come principio di selezione, con la conseguenza che ormai ci sono pochissimi registi di vecchio stampo che entrano in concorso di diritto. Quest’anno i veterani erano Ken Loach (I, Daniel Blake), i fratelli Dardenne (La fille inconnue/La ragazza sconosciuta) e Pedro Almodóvar (Julieta), presenze giustificate perché, pur senza innovare il loro linguaggio cinematografico, hanno tirato fuori dei film solidi, belli, da maestri consolidati.

Per il resto, è stata la generazione di mezzo a dominare il concorso in termini numerici, se non sempre qualitativi: i francesi Olivier Assayas e Alain Guiraudie, i rumeni Puiu e Mungiu, il filippino Brillante Mendoza, l’iraniano Farhadi, il canadese Dolan (giovanissmo in realtà ma già al sesto film), l’inglese Arnold, il danese Winding Refn, il coreano Park Chan Wook.

Cannes tende a coccolare i suoi beniamini solo finché fanno dei bei film. A conprovare questa tesi è il fatto che i registi di due tra i film più convincenti in concorso, la tedesca Maren Ade (Toni Erdmann) e il brasiliano Kleber Mendonça Filho (Aquarius), non erano mai stati presenti a Cannes con un lungometraggio prima di quest’anno, nemmeno nelle sezioni autonome della Quinzaine o la Semaine de la critique.

3. Finire in bellezza

La selezione del festival ha riservato il film più esplosivo alla fine. Forse solo Paul Verhoeven, regista di Basic instinct, poteva essere capace di prendere un argomento come lo stupro e farne una commedia nera, e forse solo Isabelle Huppert poteva essere capace di interpretare la protagonista: una donna in carriera forte, crudele, con la battuta sempre pronta. È un film che flirta pericolosamente con la delusione morbosa dello stupratore, ma la ribalta, alla fine, in un film che tratta anche degli affetti familiari, di come le storie costruite da altri ci condizionano, e come noi condizioniamo le storie. È un film da cui gli uomini escono malissimo. Verhoeven femminista? A detta di tre colleghe con cui ho guardato il film durante la proiezione per stampa, paradossalmente sì, per il ritratto che emerge di una donna che rifiuta di interpretare il ruolo della vittima imposto dal suo aggressore.

4. L’anno delle attrici

A proposito di “girl power”, è stato l’anno delle donne al livello di ruoli e di interpretazioni. Non c’era solo l’incandescente Huppert. Ho già scritto della stupenda Sandra Hüller, manager stacanovista nel film Toni Erdmann, e della bravura di Kristen Stewart (Personal Shopper di Assayas), che ormai si è scrollata di dosso il peso della trilogia Twilight e non deve più dimostrare a nessuno che sa recitare. Brava anche la francese Adèle Haenel nel film dei fratelli Dardenne. Ma personalmente darei il premio per la migliore attrice alla magnifica Sonia Braga, pilastro portante di Aquarius, del brasiliano Kleber Mendonça Filho. A 65 anni, ormai una veterana, l’attrice interpreta l’inquilina ostinata il cui appartamento di Recife è l’unico baluardo contro un progetto sfacciato di speculazione edilizia. Il film è una specie di Le mani sulla città brasiliano che però relega gli imprenditori edili a ruoli secondari per concentrarsi sugli affetti personali, i ricordi e la forza d’animo di una donna indomita. Lo si potrebbe definire un film “psicourbanistico” (come tra l’altro l’ultimo del regista, O som ao redor): ci ricorda che i luoghi dove viviamo sono fatti non solo di malta e mattoni ma di storie e persone.

La pazza gioia di Paolo Virzì. (Dr)

5. Italiani assenti giustificati

Montare polemiche su mancate presenze italiane in concorso a Cannes è diventato uno sport nazionale. Ma il direttore del festival Thierry Frémaux e i suoi selezionatori sono stati scagionati dall’accusa dei critici: nessun film italiano, presente nelle altre sezioni, era all’altezza del concorso. Dunque se ce n’erano tre l’anno scorso e nessuno quest’anno, sarà semplicemente una questione di tempi. Quello più apprezzato dalla stampa internazionale è stato il delizioso La pazza gioia di Paolo Virzì, che ha partecipato alla Quinzaine.

6. Il film spartiacque

Nicolas Winding Refn, l’autore danese di Drive e Solo dio perdona, ha firmato la sua opera più visionaria con The neon demon, che scava dentro il mondo della moda di Los Angeles per tirare fuori una fiaba strana, gelida, esteticamente affascinante, che Lesley Felperin, critico di The Hollywood Reporter, ha definito “un po’ come America’s next top model con la regia di Dario Argento” (c’è molto Argento nella scena in cui una modella cannibale vomita un bulbo oculare). Osannato (anche da me, con qualche riserva) e odiato in uguale misura, è stato il titolo che ha avuto i giudizi più contrastanti nei vari sondaggi fatti ai critici che escono dalle proiezioni del festival.

7. Il fiasco

The last face di Sean Penn ha registrato il peggior risultato di tutti i tempi (0,2) nel sondaggio Jury grid della rivista cinematografica Screen International, che riprende le valutazioni di undici critici internazionali. È un film che non sembra nemmeno accorgersi della spettacolarizzazione della miseria che mette in atto, quando si avvale della crisi umanitaria africana per rendere più drammatica una storia d’amore tra due medici che lavorano per un’ong nei campi profughi. Premio anche per l’abbinamento musicale più infelice: mentre i personaggi interpretati da Charlize Theron e Javier Bardem stanno facendo l’amore, adoperando la posizione del missionario, sentiamo il ritornello di una canzone dei Red Hot Chili Peppers: Take it on the other side.

8. La scena più bella

Non c’è discussione: la festa nuda nel film Toni Erdmann di Maren Ade. Non ve la descrivo, va vista e basta.

9. Due chicche fuori concorso

Non ho visto tantissimi film né nella sezione parallela Un certain regard (Ucr) né nelle sezioni autonome Quinzaine e Semaine de la critique, ma ho avuto la fortuna di vedere sia il vincitore della Semaine, sia quello di Ucr. Il primo, Mimosas, del regista francospagnolo Olivier Laxe, è un intrigante western spirituale, un Sentieri selvaggi del sufismo islamico, che si svolge tra le montagne dell’Atlas in Marocco. Il secondo, il finlandese Il giorno più felice nella vita di Ölli Maki, ambientato nei primi anni sessanta, smonta i cliché trionfali della tradizionale epopea sportiva in un delicato film in bianco e nero su un peso piuma innamorato.

10. I premi che darei

Palma d’oro: Toni Erdmann di Maren Ade

Grand prix: Elle di Paul Verhoeven

Premio della giuria: Bacalaureat di Cristian Mungiu

Miglior regia: The neon demon di Nicolas Winding Refn

Migliore attrice: Sonia Braga in Aquarius

Miglior attore: Joel Edgerton in Loving

Sceneggiatura: Paterson di Jim Jarmusch

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