Ogni anno, ad aprile, i campioni di golf e milioni di telespettatori si danno appuntamento per quattro giorni sul leggendario campo di Augusta, negli Stati Uniti. Il Masters, che a detta di molti è uno degli eventi sportivi più importanti dell’anno, si svolge su un percorso perfettamente curato: le azalee, simbolo del torneo, sono programmate in modo da fiorire proprio in occasione dell’evento. Gli aghi di pino, rastrellati e livellati, formano un ordinato tappeto alla base degli alberi. Inoltre viene aggiunto del colorante blu nell’acqua dei laghetti artificiali per rendere l’insieme ancora più suggestivo.
La leggenda narra che un giorno un tale scommise che sarebbe riuscito a trovare un’erbaccia nel campo, ma finì col perdere, e dovette rinunciare ai cento dollari in palio. I grandi tornei di golf, però, sono anche la sintesi dei motivi per cui molte persone si sentono a disagio di fronte alla diffusione di questo sport.
Viene da chiedersi: come fanno i giardinieri a raggiungere un tale livello di perfezione? Quanti macchinari, pesticidi e litri di carburante servono per ottenere quella copertura verde smeraldo, così resistente e capace di sfidare le stagioni, senza l’ombra di un’erbaccia? I campi da golf (nel mondo ce ne sono più di 31.500) saranno mai ecologicamente sostenibili?
Ci sono poi alcune considerazioni etiche da fare. Il golf, in particolare per i suoi tornei più importanti, è da sempre accusato di essere uno sport elitario e discriminatorio. Accuse che gli appassionati respingono. Il Masters di Augusta è la facciata pubblica di un club esclusivo che conta solo soci uomini e che fino al 1990 non ammetteva soci neri. Il suo ex presidente, Clifford Roberts, una volta ha perfino detto: “Fino a quando sarò in vita, i golfisti saranno bianchi e i caddy neri”.
In Gran Bretagna, il Royal & ancient golf club, l’organo che stabilisce le regole ufficiali seguite in tutto il mondo (tranne in Messico e negli Stati Uniti), è tuttora un’istituzione formata da soli uomini. Per questo molti vedono i golf club come uno degli ultimi simboli di esclusione sociale. Grandi spazi riservati a pochi eletti.
Tra tutte le accuse contro questo sport, la più grave è legata all’impatto ambientale prodotto dalle sue infrastrutture. La Gran Bretagna ha una delle più elevate concentrazioni di campi da golf del mondo. Circa lo 0,6 per cento del suo territorio è coperto da un totale di 2.600 campi (l’incremento, negli ultimi trent’anni, è stato del 40 per cento).
Ogni campo si estende su una superficie di circa 60 ettari, pari a quella di un’azienda agricola di medie dimensioni. Su alcune zone del campo, come per esempio i green (le zone con l’erba molto bassa che circondano la buca), è spruzzata una quantità di pesticidi, erbicidi e fungicidi molto maggiore di quella usata su un campo coltivato.
Negli anni novanta, il gruppo di studio sull’uso dei pesticidi del Central science laboratory britannico ha scoperto che sui campi da golf vengono sparsi in media 0,5 chili di princìpi attivi all’anno su ogni ettaro per eliminare vari problemi: piccoli cumuli di terra espulsi dai lombrichi, tane di talpe, erbacce e patologie fungine. La dose applicata ai green è di circa 15 chili per ettaro, a fronte degli 11,7 chili sparsi sui campi di patate.
Come nel caso dell’agricoltura, anche qui bisogna valutare l’impatto di questi trattamenti su flora e fauna selvatiche. Alan Gange, docente di ecologia microbica all’università Royal holloway di Londra, ha provato a capire se i campi da golf sono dei “corridoi ecologici” per le specie selvatiche costrette a lasciare le aree coltivate circostanti e le periferie invase dai centri urbani, o se invece attirano le specie selvatiche per poi rivelarsi una trappola letale a causa dell’elevata concentrazione di pesticidi.
Gange non ha trovato alcun indizio che avvalori la tesi delle “trappole letali”. Al contrario, alcuni vecchi campi, aperti da oltre settant’anni, conservano ancora al loro interno gran parte dell’habitat naturale su cui sono stati inizialmente costruiti, fornendo quindi un rifugio sicuro a specie rare come rospi dei canneti, orchidee a rischio d’estinzione, nibbi e lucertole.
Questi campi storici, però, rappresentano un’eccezione. Secondo Gange, i campi pubblici, che consentono l’accesso senza obbligo di iscrizione a un circolo, sono in genere “molto scadenti sotto il profilo ambientale”, come gran parte dei club esclusivi.
Le enormi quantità d’acqua richieste per irrigare il percorso creano gravi difficoltà nelle aree dove la domanda di campi da golf è gonfiata dai turisti. Uno studio condotto nel 2003 dal Wwf ha rivelato che in un anno i campi da golf spagnoli consumano ognuno 15mila metri cubi di acqua per ettaro, quanto una città di 12mila abitanti.
I golfisti dovrebbero convincere i loro club ad adottare sistemi di gestione più ecologici (vedi golfenvironmenteurope.org). E magari potrebbero evitare di lamentarsi se la pallina è deviata da qualche imperfezione del percorso.
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