Mercoledì 11 marzo un internato dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto si è tolto la vita impiccandosi nel bagno. Nello stesso giorno, appena più in là, un detenuto del carcere di Sciacca ha preso la stessa decisione.

Sono solo gli ultimi due componenti della lunga teoria di morti che attraversa le strutture detentive del nostro paese. Terminare la propria esistenza in carcere non costituisce un fatto episodico, bensì rappresenta un vero e proprio parametro e un asse portante dell’attuale sistema della reclusione.

Se non esiste la pena di morte, esiste la morte per pena. Nel corso del 2014, i suicidi sono stati 44, e 88 i decessi per “cause naturali”; nei primi mesi del 2015, nove i suicidi e nove i morti per altre ragioni. Proprio per questo occorre pensare (e finalmente realizzare) il superamento del regime carcere. Anche se nella mentalità collettiva non è immaginabile una pena che prescinda dalla reclusione, non è sempre stato così.

Sono state le leggi ordinarie, modificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare, a introdurre l’idea che la risposta sanzionatoria dello stato alla violazione delle leggi penali debba consistere nella privazione della libertà, all’interno di un perimetro chiuso e di una cella serrata, per un determinato periodo di tempo. E un simile concetto non lo si trova da nessun’altra parte e tanto meno nella costituzione italiana.

È diventato senso comune e norma di legge, per una inveterata abitudine, che risale a qualche secolo fa e che è stata legittimata dall’autorità di Cesare Beccaria, preoccupato delle pene efferate che incrudelivano sui corpi nell’ancien régime. In quel contesto, dunque, il carcere era il male minore: una pena la cui “dolcezza” avrebbe fatto decadere le punizioni più atroci.

La nostra carta, all’articolo 27, dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva troppo frequentemente corrisponde di per sé a un trattamento contrario al senso di umanità, al punto di indurre il sospetto che essa sia – in sostanza – una pena inumana. E d’altra parte è incontestabile che la pena detentiva – nella grande maggioranza dei casi – non tende alla “rieducazione” del condannato, ma costituisce una sua degradazione fino a segnarne tragicamente il destino.

Inoltre, la costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere (per averne fatto esperienza direttamente durante il fascismo) e la pena capitale, furono lungimiranti: saggiamente non aggettivarono le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni penali.

E quel legislatore dovrebbe sapere, innanzitutto, come sia inequivocabilmente provato che il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione. In primo luogo perché quanti vi sono reclusi si troveranno a commettere nuovi delitti in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento. Il sistema penitenziario, pertanto, produce l’effetto opposto a quello a cui dovrebbe mirare – ridurre il tasso generale di criminalità – e finisce con l’affinare le capacità delinquenziali dei detenuti, insediandoli più profondamente nel tessuto della illegalità e negando loro ogni alternativa di vita.

Allo stato attuale, le diverse finalità della carcerazione, inoltre, tendono a ridursi via via a una sola e a concentrarsi, alla prova dei fatti, nell’esclusiva funzione di affliggere il condannato per il reato commesso. Così, la pena si mostra nella sua essenzialità come vera e propria vendetta. In quanto tale, essa risulta priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea – direi: indifferente – a quel fine che la costituzione indica nella “rieducazione del condannato”.

Se la pena, infatti, viene considerata esclusivamente per la sua finalità “retributiva” – ovvero compensare la colpevolezza del reo – saremmo in presenza di una misura che ha il solo obiettivo di arrecare dolore, ovvero affliggere il detenuto. E ciò la renderebbe iniqua e sostanzialmente immorale.

All’opposto, il fondamento di una possibile moralità risiede proprio in quello che consideriamo come il più rigoroso e radicale habeas corpus: cioè l’incondizionata tutela dell’integrità e della incolumità del corpo e della personalità del condannato. In caso contrario non c’è dubbio che è la violenza istituzionale, fino all’esecuzione capitale, la forma di sanzione più equa. Nel caso estremo, solo la pena di morte rappresenta effettivamente la retribuzione più “proporzionata”: morte per morte.

Non c’è il minimo dubbio, infatti, che la pena capitale – sotto il profilo della massima utilità – risulti più incisiva di lunghe e costose carcerazioni, meno capaci di bloccare la diffusione del delitto e la sua perpetuazione.

A conferma della maggiore “ragionevolezza” che avrebbe, in un simile contesto, la pena di morte, si può far riferimento a quanto accaduto nei primi giorni del 2015, quando un ergastolano belga ha chiesto di poter accedere al protocollo per l’eutanasia, ricevendo inizialmente una risposta positiva da parte del ministero della giustizia. L’uomo, Frank Van den Bleeken, avrebbe voluto esser curato in una clinica specializzata per la sua patologia – si definisce uno “stupratore seriale” – ma, nonostante ripetute richieste, non gli è stato concesso. Lo stato, di fatto, avrebbe preferito la sua morte, con l’ipocrisia di un atto giustificato come rispondente alla sua volontà. Così l’ergastolo, la pena senza speranza, ridiventa, anche in senso materiale, pena di morte.

Al di là di questo esito estremo, la contraddizione strutturale dello strumento-carcere manifesta la sua evidenza anche sotto altri aspetti. Il primo. La sua rozzezza: la prigione è uno strumento palesemente non sensibile e non intelligente. Esso può essere applicato solo indistintamente e grossolanamente senza alcuna duttilità e flessibilità. In estrema sintesi: il carcere è lo stesso per chi vi finisce per aver rubato un pacco di wafer e per Bernardo Provenzano.

In altre parole, la qualità della pena comminata per la gran parte delle fattispecie penali del nostro ordinamento è essenzialmente sempre la stessa: la reclusione. Ovvero la misura che, nel nostro codice, è prevista per i delitti e che può avere una durata compresa tra 15 giorni e 30 anni. Se poi si tiene conto che per le contravvenzioni la pena detentiva è denominata arresto ma può comportare le stesse conseguenze di restrizione della libertà, è facile dedurre che la prigione costituisce il cuore stesso dell’idea e della pratica della punizione per come il codice e la prassi giudiziaria l’hanno definita.

D’altra parte, non va dimenticato mai che il carcere è un prodotto umano e come tale va sottoposto a un test di validità. E il criterio fondamentale è quello relativo alla quantità di bene e alla quantità di male che ne derivano. Ovvero: il carcere produce bene se risponde allo scopo per il quale è stato creato. Produce male se non raggiunge il fine al quale è destinato e se determina danni che superino i benefici ottenuti.

Si prenda un anno qualsiasi, il 1998, per esempio: un anno come tanti nella recente storia italiana. Nel corso di quell’anno 5.772 persone già condannate in via definitiva vengono scarcerate dopo aver finito di scontare la propria pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3.951 di loro saranno di nuovo in carcere, accusate o condannate per aver commesso nuovi reati. Si tratta esattamente del 68,4 per cento di quanti erano stati scarcerati nel 1998. Una percentuale enorme che costituisce, necessariamente, il punto di partenza di qualunque discorso sul sistema penitenziario. Ripetiamo, a scanso di equivoci: il 1998 fu un anno come tutti gli altri. Parto da lì solo perché è l’unico anno su cui l’amministrazione penitenziaria ci ha fatto conoscere, incidentalmente, questo piccolo e incontrovertibile dato sull’efficacia “rieducativa” della pena detentiva: una bocciatura senza appello.

Certo, sull’altro piatto della bilancia ci sono alcune decine, forse alcune centinaia (non certo alcune migliaia) di detenuti che attraverso un corso di formazione, il lavoro all’interno del carcere, poi quello fuori e, magari, una misura alternativa alla detenzione, in galera non ci sono rientrati, ma il bilancio resta clamorosamente negativo e insistere sulle ammirevoli “buone prassi” rischia di farle apparire come foglie di fico sulla vergogna di un carcere insensato. Possiamo continuare a invocare, minacciare, eseguire pene detentive sempre più dure per qualsiasi violazione della legge: ma se il loro risultato è questo, il realismo e la misura ci impongono di trovare delle alternative.

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