Tra tutte le ricorrenze internazionali, quella di oggi è forse la meno conosciuta. Da 44 anni, l’8 aprile viene celebrato come la giornata del popolo rom e sinti, in ricordo del primo congresso, che si era svolto a Londra nel 1971, in cui venne fondata l’International Romani Union; poi, nel 1979, anche l’Onu riconobbe ufficialmente questa data.

Dunque, se è vero che i rom sono tra i gruppi più discriminati nel nostro paese (forse il più discriminato), ogni occasione può essere utile per provare a smontare quella macchina di pregiudizio e di stigmatizzazione, di stereotipi e di luoghi comuni che ha consentito la diffusione di una così aggressiva ostilità.

No, i rom non rubano i bambini e no, nel nostro paese (dove una percentuale elevata è di cittadinanza italiana), non ha quasi più senso etichettarli come nomadi. D’altra parte, non tutti vivono in campi attrezzati o abusivi ai margini delle nostre città e chi invece ci vive, spesso lo fa perché costretto dall’assenza di alternative. Ed è proprio l’assenza di alternative che finisce con l’alimentare ciò che, agli occhi di tanti, sarebbe “la natura” – addirittura il dna – di quel popolo e la sua fatale “vocazione” al furto, all’accattonaggio e alla sopraffazione.

Guardiamo ai dati. Si stima che in Italia la popolazione rom e sinti ammonti a 180mila persone. Di queste, circa 70mila hanno la cittadinanza italiana mentre gli altri si dividono tra apolidi, ex jugoslavi e romeni. Oltre il 60 per cento di loro vive all’interno di abitazioni stabili e solo la restante parte si trova in campi attrezzati o abusivi.

Questo mostra quanto sia eccessivo – rivelandone allo stesso tempo la finalità tutta emotivo-propagandistica – il messaggio che li vorrebbe rappresentare come un’emergenza e come un fenomeno di invasione, tale da richiedere la dichiarazione dello stato d’eccezione e misure straordinarie. È ciò che, in realtà, si è cominciato a fare tra il 2008 e il 2011, quando, con un decreto governativo, si è istituita l‘“emergenza nomadi”, in relazione agli insediamenti abusivi in cinque regioni italiane (Campania, Lombardia, Lazio, Piemonte e Veneto). Quel decreto, successivamente, è stato dichiarato illegittimo dalla corte di cassazione. Ma, a distanza di anni da quel pronunciamento, il lavoro da fare resta ancora enorme.

Ne discende un altro equivoco che ha prodotto un singolare paradosso: sembra che sia in atto in Italia un conflitto tra coloro (i cattivi) che vogliono chiudere i campi nomadi e coloro (i buoni) che li vorrebbero tenere aperti, magari attrezzandoli meglio. Si tratta davvero di una colossale truffa ideologica. I campi nomadi, presenti in Italia da decenni, sono allo stesso tempo causa ed effetto della discriminazione ai danni di rom e sinti: producono, infatti, due processi strettamente correlati che si alimentano vicendevolmente e perversamente.

I rom presenti nei campi tendono inevitabilmente ad autoghettizzarsi dentro quella dimensione circoscritta e coatta di marginalità sociale e autogoverno, dove si riproducono circuiti illegali e relazioni di potere. Per contro, chi abita vicino a quei campi si convince del fatto che rappresentino una costante minaccia e, dunque, oscilla tra volontà di chiuderli in maniera definitiva e tentazione di “spazzarli via” con ogni mezzo.

Di conseguenza, premessa a qualsiasi ragionevole strategia di inclusione e integrazione è il superamento degli stessi campi nomadi. Oltretutto, dopo che alcune inchieste giudiziarie hanno cominciato a fare luce sul fenomeno – insieme ad alcune ricerche ben documentate, come quella dell’Associazione 21 luglio – lo si può dire apertamente: sulla pelle dei rom, e sul loro presunto nomadismo, hanno lucrato in molti. Appalti plurimilionari, container come scatole di latta al costo di villette con piscina, edifici fatiscenti con locali privi di finestre al prezzo di un affitto al centro di Roma. E tutto per dire, per poter continuare a dire, che i rom costituiscono un’emergenza.

Per fortuna l’Europa ogni tanto ci viene in soccorso, ed è solo grazie alle pressioni dell’Unione che nel 2012 è stata recepita nel nostro paese la Strategia nazionale d’inclusione di rom, sinti e caminanti. Un programma ancora agli inizi e tutto da realizzare concretamente, ma che – se non altro – rappresenta una prospettiva dotata di razionalità e lungimiranza.

Infine. Recentemente ho sentito citare più volte la poesia, attribuita a Bertolt Brecht, dove si immagina una successione di atti di discriminazione che colpiscono, via via, i diversi gruppi sociali e le diverse minoranze. Chi non reagisce perché, dice, “non è affar mio” verrà a sua volta discriminato, ostracizzato, messo al bando: fino a che l’ultima vittima, sopravvissuta a tutte le precedenti persecuzioni, si scoprirà totalmente sola. Non è solo una tragica parabola e un inesorabile monito morale sulla indivisibilità dei diritti.

C’è, in quei versi, l’anticipazione di una sorta di cupa gerarchia sociale dell’odio, che mostra come lo zingaro, comunque lo si chiami, concentri su di sé il massimo dell’ostilità collettiva. L’autore dei versi è, in realtà, il pastore protestante Martin Niemöller, ma è stato Brecht ad aggiungere, successivamente, quel riferimento agli zingari che ne sottolineava il ruolo di ultimi tra gli ultimi. Ecco, a distanza di settant’anni gli ultimi tra gli ultimi non hanno cambiato nome. E diventa più che mai urgente schierarsi dalla loro parte.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it