Invece di vivere per pagare il consumo impareremo a vivere direttamente la nostra vita, scrive Manuel Castells.
La crisi economica mondiale continua ad aggravarsi, soprattutto in Europa. Nel primo trimestre del 2009 il pil delle economie dell’Unione ha registrato un crollo medio del 4,7 per cento. In Spagna, anche se la produzione è scesa solo del 2,9 per cento, la disoccupazione aumenta molto più rapidamente che nel resto d’Europa, e le previsioni minacciano un tasso del 20 per cento nel giro di pochi mesi.
Il punto è che il miracolo spagnolo era di cartapesta. Basta considerare l’anomalia che si era creata negli ultimi dieci anni: una crescita di oltre il 3 per cento con un aumento di produttività al di sotto dell’uno per cento.
Com’è noto, questa crescita era dovuta in gran parte all’aumento dei posti di lavoro e agli investimenti nell’edilizia e nel turismo, che avevano creato una bolla immobiliare alimentata da tassi di interesse negativi in termini reali. Credito facile, debiti troppo alti e sfruttamento di una manodopera immigrata abbondante ed economica, che ha contribuito ad aumentare la domanda: questo castello di carte speculative ora sta crollando.
Nell’ultimo trimestre del 2008 il tasso di occupazione nel settore edile è calato almeno del 20 per cento e la produzione dell’8 per cento. Nel primo trimestre del 2009 le compravendite di case sono diminuite del 24 per cento rispetto all’anno precedente.
E questo è solo l’inizio, perché il crollo dell’occupazione non si è ancora fatto sentire sulla domanda. Se a questo aggiungiamo la scomparsa di migliaia di piccole imprese che hanno perso quote di mercato nel settore manifatturiero, è difficile essere ottimisti sul futuro del tessuto produttivo così come lo conosciamo.
Da qui nasce l’idea di passare da un’economia speculativa finanziario-immobiliaria a un’economia d’innovazione, sfruttando le reti informatiche con una forza lavoro più istruita e in grado di produrre servizi avanzati, sia pubblici sia privati. Il problema è che i tempi di gestazione di questa nuova economia della conoscenza sono lunghi.
Negli anni di vacche grasse alimentate artificialmente si è perso tempo prezioso. Collegare gli studenti a internet è un’idea eccellente, ma il suo effetto si farà sentire solo quando questi bambini saranno cresciuti, tra una ventina d’anni. Ecco perché per uscire dalla crisi servono strategie immediate che preparino la strada a lungo termine.
Per esempio lo sviluppo di piccole e medie imprese innovative, in grado di attingere da mercati pubblici come sanità, istruzione, energie rinnovabili e servizi pubblici. Oggi solo lo stato è in grado di investire nell’economia riuscendo a stimolarla.
Ma invece di puntare su sovvenzioni a fondo perduto per industrie condannate (come gli incentivi per l’acquisto di auto), sarebbe meglio rinnovare profondamente le infrastrutture dei servizi pubblici aprendo un mercato per le piccole e medie imprese e cambiando la prassi che riserva i mercati pubblici, per esempio della sanità, a multinazionali che vendono a caro prezzo le loro tecnologie.
Siamo tutti d’accordo sul fatto che sono le piccole e medie imprese a creare occupazione, ma queste aziende non possono farcela senza formare le loro risorse umane, senza reti di cooperazione e, soprattutto, senza accedere a capitali a rischio da investire su progetti di innovazione.
I dati, però, non lasciano ben sperare. Nell’aprile del 2009 il numero di aziende nate in Catalogna, terra di piccole e medie imprese, è sceso quasi del 35 per cento rispetto al 2008, mentre quelle che hanno chiuso i battenti sono aumentate del 20 per cento. Una situazione che nasce, ancora una volta, dal mercato finanziario: ora che il rubinetto del credito si è chiuso, chi non ha riserve o non è abbastanza grande per chiedere allo stato di essere salvato va in rovina.
È chiaro che la posta in gioco non è solo la ripresa economica, ma la trasformazione del nostro modello socioeconomico. Non dobbiamo solo passare a un’economia della conoscenza: bisogna anche sottrarre alle regole del mercato una parte della vita quotidiana.
Coltivando pomodori per mangiarli. Integrando l’auto con la bicicletta. Lavorando meno e guadagnando meno, ma godendo di più delle cose belle della vita grazie alla nuova ricchezza di tempo disponibile. Prendendosi cura del proprio corpo invece di comprare medicine. Scambiando musica e film in rete invece di pagare canoni medievali ai monopoli corporativi.
Prendendosi cura dei bambini degli altri mentre gli altri si prendono cura dei nostri, approfittando del fatto che molti hanno più tempo libero. Andando a trovare i nostri genitori prima che muoiano di solitudine. E riscoprendo il piacere di una passeggiata al sole, e pazienza se arriviamo tardi.
La verità è che non abbiamo molte alternative. Bisognerà imparare a conciliare gli ultimi rantoli di una vecchia economia irragionevole, gli albori di una nuova economia dell’innovazione e l’espansione di un terzo settore di attività, in cui invece di vivere per pagare il consumo vivremo direttamente la nostra vita, senza intermediazione monetaria. Non è un’utopia, ma un’esperienza variopinta che nasce dalla necessità. Tempi di crisi, tempi di speranza.
Manuel Castells è un sociologo spagnolo. Collabora con il quotidiano La Vanguardia di Barcellona (altri articoli di Manuel Castells pubblicati da Internazionale).
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