È possibile ricordare e magari festeggiare la costituzione uscendo dalla retorica stucchevole della “più bella del mondo”, evitando le scorie avvelenate della battaglia referendaria, scansando dogmatismi conservatori e strumentali revisionismi? Difficile, molto difficile. E infatti il settantesimo anniversario della nostra carta, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, sta trascorrendo senza alcunché di significativo, con poche, pallide celebrazioni rituali. Eppure proprio in un momento di involuzione politica e di degrado culturale come quello che stiamo vivendo, nell’intreccio di paure e di rassegnazione che paralizza gli italiani, la costituzione potrebbe dirci molto. Per quello che c’è scritto e per come è stata scritta.
C’è molto, dentro la costituzione, forse troppo. Ma c’è qualcosa di essenziale, che per ora potrebbe bastare. Sta in quegli articoli – i primi dodici – che i costituenti proclamarono come “Princìpi fondamentali”. Lì c’è un’idea di paese e di società per la quale varrebbe ancora la pena di impegnarsi. E non per un nobile sentimento di riconoscenza per chi ce li consegnò, ma perché, nella loro evidente idealità, disegnano possibilità realiste di convivenza anche di fronte a problemi che sono enormemente cambiati rispetto a settant’anni fa. Nulla di astratto, dunque, nulla di impossibile.
C’è una sorta di straordinario senso del movimento, in questi articoli. Lo si riconosce dall’uso di due verbi che hanno la stessa radice e indicano il rifiuto di ogni staticità. La repubblica rimuove, la repubblica promuove. Per la verità il secondo si trova solo in un punto: là dove all’articolo 3 si impegna la repubblica contro la diseguaglianza.
Cosa rimuovere
Cosa fare degli ostacoli che limitano la libertà e l’eguaglianza? Come trattare le negazioni di principi che in astratto sembrano facili da proclamare? E allora, ecco, “è compito della Repubblica rimuovere…”. Addirittura: eliminare, levare di torno, spazzare via, dicono i dizionari dei sinonimi.
Ed è singolare che in un testo scritto con sobrietà, quasi con gentilezza, affiori questo verbo forte e impegnativo, che richiama più l’impetuoso intervento di una ruspa che non il paziente, complesso lavoro costruttivo che contrassegna il resto della costituzione.
Del resto qui si prevede qualcosa che con questa forza esplicita nessuna carta istituzionale aveva mai previsto. Il primo movimento è dunque questo rivoluzionario spazzar via macerie materiali e difese, remore, refrattarietà intellettuali.
Cosa promuovere
Cosa promuovere, invece? Qui l’arco dei temi si fa più ampio, ma non troppo, in fondo. C’è sempre un senso di rigorosa economia, un tentativo di disegnare il perimetro stretto delle cose essenziali.
E allora, ecco, “la Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali” e questa che a noi sembra un’ovvietà piena di problemi suonava come una rottura fragorosa dopo vent’anni di totalitarismo e quasi cento di oppressivo centralismo; “la Repubblica promuove la condizioni che rendono effettivo” il diritto al lavoro; “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”; e infine promuove le organizzazioni impegnate nella pace e la giustizia internazionale.
Il lavoro, dunque, la cultura e la pace. Se ci sono dei pilastri su cui edificare una società nuova, non possono che essere questi.
Ma cosa significa promuovere? L’etimologia è così semplice: muovere, spostare, trascinare in avanti. Non basta dunque sgombrare la strada: bisogna incamminarsi. Se si pensa in particolare al mirabile articolo 9, alla cultura, al paesaggio, al patrimonio storico e artistico, l’uso di questo verbo e l’impegno che contiene sembrano liquidare anticipatamente tante polemiche e contrapposizioni di questi anni.
Nessun preambolo
Non è questione di tutela vs. valorizzazione. Una repubblica – cioè l’insieme di cittadini e istituzioni – deve spingere sempre in avanti i propri valori culturali, le proprie idee del mondo. Non si fissa nulla una volta per sempre nemmeno quando si scrive una carta costituzionale.
Questo senso del movimento continuo è l’unico che può tenere viva e unita una comunità quando si tagliano i ponti con la tradizione, con i valori e i princìpi delle autorità passate, con ogni legittimazione che venga da fuori o dall’alto. La nostra costituzione non ne contiene alcuna. Né nella forma di un qualche principio soprannaturale ispiratore (quando uno dei grandi costituenti, il religiosissimo Giorgio La Pira, fu tentato proprio alla vigilia della votazione finale di inserire un riferimento a dio si dissuase, per così dire, da sé), ma nemmeno nella trasformazione di quei primi dodici articoli in un preambolo, qualcosa di fondamentale, sacro e inviolabile, particolarmente autorevole – e però separato dal resto del testo.
A differenze di altre costituzioni, nella nostra non c’è nessun dio e nessun preambolo. Quei dodici articoli fanno parte del testo, non hanno nemmeno una numerazione o un’impaginazione separata. Sono l’architrave, ma l’architrave fa parte dell’edificio. E la costituzione non è un testo sacro, ma un capolavoro umano.
Una sfida continua
Impegnativa com’è, una carta del genere non può mai essere davvero realizzata. È sempre un problema aperto, una specie di sfida quotidiana. Non bisogna temere di affrontarla. Senza cedere alla stanchezza né alla soggezione. La stanchezza è certamente giustificata: a ripercorrere l’elenco delle inadempienze e dei tradimenti di questi settant’anni si cederebbe facilmente alla rassegnazione. E un sentimento non dissimile provocherebbe l’analisi dei mille tentativi falliti di cambiare e migliorare quello che – come in ogni opera umana – poteva essere cambiato e migliorato.
Ma ecco, la rassegnazione e la soggezione non sono sentimenti costituzionali. Nel senso che solo combattendoli poteva riuscire un’impresa del genere; e nel senso che questa è infine l’unica lezione che non dovremmo davvero tradire.
Perfino nei discorsi celebrativi dell’ultima seduta dell’assemblea costituente che il 27 dicembre 1947 votò il testo (con 453 voti a favore e 62 contrari, perché in democrazia si può anche votare contro e anche questo bisognava imparare), emergeva la consapevolezza che quello che si stava compiendo era migliorabile, era incompleto: “Noi stessi, ed i nostri figli, rimedieremo alle lacune e ai difetti, che esistono, e sono inevitabili”. Ma quello che si stava compiendo era qualcosa di grande. Era nato da tragedie immani e con energie che in qualche modo non si sapeva di avere. Del resto, dove avevano trovato valori così alti e parole così nitide uomini e donne cresciute nell’esilio, nel carcere o nell’inganno anche retorico del regime fascista?
Solo nel continuo, collettivo confronto di idee diverse che per mesi interi si sono confrontate e combattute, hanno accettato di compromettersi e di contaminarsi, hanno trovato soluzioni e parole nuove per dire qualcosa che non era mai stato detto. Un mirabile esempio di quella che, per altri grandi testi, è stata chiamata “scrittura collettiva”.
Per questo riconoscere la qualità delle idee e delle persone che fecero la costituzione non è solo un omaggio necessario ma l’unico modo per capire quanto essa è viva. E quanto è viva la risposta che diede, in tempi durissimi, ad attese di nuove forme di convivenza, non ostile né servile, che, realizzandosi almeno in parte, si sono in questi settanta anni trasformate e cresciute, ponendo problemi sempre nuovi. È questo carattere vitale che ancora ci sfida, come un capolavoro che ogni generazione deve rileggere e ricreare. Come una eredità fantastica, felice, enormemente impegnativa.
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