Forse bisognerebbe fermarsi un attimo e riflettere sulle parole che stiamo spendendo e le proposte che stiamo avanzando per non chiudere cinema, teatri, sale da concerto. Non perché siano sbagliati gli argomenti, e tantomeno non condivisibili le intenzioni. Non c’è dubbio sul fatto che “l’arte rifonda continuamente la comunità” e che “senza teatro la polis comincia a disgregarsi”, come ha scritto per esempio Nicola Lagioia. E dunque non deve esserci dubbio sul fatto che nel buco nero di una pandemia che sembra non finire più abbiamo davvero bisogno di arte, cultura e bellezza come del pane. Ne abbiamo bisogno come comunità e come singoli individui: senza saremmo (siamo) tutti più deboli, più poveri, più soli.
Ma una pandemia è qualcosa che irrompe nelle nostre vite e non si lascia dominare. Lo stiamo imparando – a fatica, attoniti e renitenti – settimana dopo settimana. I dati, a meno di non abboccare all’idiozia delle varie sfumature negazioniste, sono crudeli. Quelli meno equivoci da tutti i punti di vista – la pressione sugli ospedali e in particolare sui reparti di terapia intensiva – ci dicono già che avremo un inverno durissimo.
L’unica arma che abbiamo è rallentare, svuotare, isolare. Chiudere quello che si deve, rinunciare a quello che si può. E allora qualche verità amara va detta. I cinema e i teatri si sono già svuotati. E comunque, nel loro piccolo (molto piccolo, ahimè) contribuiscono al movimento, alla circolazione, alla riunione. Proprio quello che dovremmo evitare. Non è dunque in discussione la grande sicurezza garantita da una sala con i posti distanziati. Né, se c’è bisogno di ripeterlo, l’irrinunciabilità dei contenuti, del linguaggio, dei valori e delle emozioni di uno spettacolo teatrale o musicale. Ma appunto, è questi che bisognerebbe difendere ad ogni costo. È per questi valori (nell’impossibilità, non sappiamo quanto provvisoria, di frequentare i luoghi che li esprimono) che va lanciata una mobilitazione all’altezza dei tempi. Cioè della gravità ma anche della responsabilità di chi – proprio perché ha a cuore l’arte e la cultura, cioè la vita più piena, aperta e generosa – non può nemmeno minimamente mettere a rischio salute ed esistenza altrui.
Non si tratta dunque di rassegnarsi. Ma anzi, di non arrendersi all’alternativa tra la resistenza egoriferita e la rinuncia fatalistica. La mobilitazione degli operatori culturali e di tanti cittadini e cittadine che hanno a cuore il futuro dell’arte come quello della propria esistenza andrebbe indirizzata in un’altra direzione. Meno retorica (va ripetuto: teatri e cinema si svuoteranno comunque, qualunque siano i dpcm che ci aspettano) e più efficace. Non meno esigente: bisogna in primo luogo chiedere risorse certe e rapide per un mondo che ha sempre vissuto ai margini della povertà e che ora rischia di precipitare. È in gioco, puramente e semplicemente, la sua esistenza.
In vista c’è la scomparsa di un intero tessuto di compagnie, orchestre, gruppi e singoli operatori. Risorse – cioè soldi e servizi – subito, anzitutto. Ma poi bisogna pensare come non perdere la ricchezza dell’esperienza artistica e culturale. E dunque reinventare modalità materiali e digitali, luoghi reali e virtuali, nei quali continuare a praticare arte, intelligenza, bellezza. Studiare (e pretendere) incentivi da usare in questa direzione: progettare piattaforme e tecnologie capaci di scavalcare ogni isolamento, ogni separazione (che saranno comunque necessari nel mondo che sta nascendo dalla pandemia).
E infine chiedere, anzi pretendere, che i mezzi di informazione e le grandi agenzie di comunicazione aprano i loro spazi all’arte e alla cultura non solo quando protestano ma nel loro lavoro quotidiano. Le piattaforme italiane – a cominciare naturalmente dalla Rai – andrebbero incalzate e infine costrette a dare spazio a esperienze, spettacoli, scene e suoni che non possono più esprimersi altrove. Qui si dovrebbero concentrare appelli, petizioni, rivendicazioni. Per compensare e sostituire come si può le sale vuote e silenziose. Non nella cocciuta (e temo inutile) pretesa di restare aperti comunque. Ma per aprirsi di più, durante e dopo la pandemia.
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