Lo spazio verticale
La prima cosa che penso dei monopattini è che sono una linea verticale. Dal terrazzo di questa casa al mare negli ultimi mesi ho osservato centinaia di persone passarmi di fronte in monopattino. A un certo punto dell’estate l’amministrazione comunale ha autorizzato una di quelle piattaforme di noleggio così comuni nelle grandi città europee. Così le linee verticali sono improvvisamente aumentate.
La seconda cosa a cui penso quando vedo scorrere di fronte a me un umano in monopattino è un geniale cartone animato della mia infanzia. Si intitolava La Linea, ed era disegnato da Osvaldo Cavandoli. A quei tempi, con grande estro e originalità, pubblicizzava una marca di pentole a pressione.
Anche La Linea, come i monopattini, abita un proprio spazio verticale: il cartone animato si svolge (il verbo svolgere è perfetto in questo caso) dentro una superficie senza profondità e come tale del tutto innaturale.
Anche per colpa di questo limite geografico i monopattini hanno ricevuto spesso un’accoglienza non positiva da chi per la prima volta li osservava sfrecciare. Oggetti esigui, troppo sottili, bidimensionali e come tali assolutamente pericolosi. Una precarietà simile a quella del disegnatore alle prese con una sola linea da trasformare in una storia sul foglio.
Le biciclette elettriche, che sono in questo momento la tecnologia gemella dei monopattini, suscitano invece in me sentimenti meno ecumenici: sentimenti di diffidenza e inganno che un po’ fatico ad accettare, ma che sono comunque miei. Sarà sufficiente un colpo di pedale e il silenzioso motore elettrico ci sostituirà; la fatica muscolare sarà cauterizzata, sostituita da qualcosa d’altro. La bici elettrica è un inganno il cui nucleo risiede nella negazione della funzione originaria. Le gambe della signora che mi sta passando di fronte giusto ora si muovono armoniche sui pedali, le ginocchia salgono e scendono senza sforzo, mentre la bici scorre veloce, spinta da qualcos’altro. Anche l’espressione “pedalata assistita” suona come una bugia: non è la pedalata a essere assistita dal motore, semmai il contrario. Il pedale si trasforma in interruttore e il motore elettrico si avvia: un ibrido unisce così il vecchio e il nuovo mondo. L’oggetto bici è in parte silenziosamente morto ma l’ibrido elettrico ne mantiene caldo il corpo. Come nella commedia Weekend con il morto talvolta per mantenere le apparenze basteranno un paio di occhiali da sole.
Lo spazio verticale del monopattino ha delle conseguenze. Gli oggetti che vi accedono devono rimanere anch’essi sulla linea. Il manubrio stesso è di una larghezza ridotta al minimo (43 centimetri), la pedana sulla quale rimarremo in equilibrio durante il viaggio si espande fuori dalla linea per uno spazio molto limitato (12 centimetri). I piedi andranno così posizionati uno davanti all’altro: così ogni guidatore di monopattino assomiglierà all’acrobata sul filo d’acciaio teso fra le torri gemelle in una giornata d’agosto del 1974.
In altri casi meno eleganti i guidatori forzano lo spazio verticale con una postura a piedi divaricati che li rende meglio saldi sulla pedana ma così somiglianti a oche immobili o a ballerine in tutù. Del resto fuori da quello spazio esiguo non esistono molte altre possibilità: gli oggetti che porteremo con noi saranno contenuti in uno zaino sulle nostre spalle. Ogni oggetto che occupi lo spazio verticale sarà benvenuto, qualsiasi oggetto che lo travalichi orizzontalmente sarà ostacolato.
Una certa età
“Conosco la mia età, posso dichiararla, ma non ci credo”.
Marc Augé
“Età massima consigliata 50 anni”.
Dal manuale del monopattino Xiaomi Mi
L’età avanzata illumina ai nostri occhi i molti pericoli dell’esistenza: viviamo – tutti noi che non abbiamo più vent’anni o che abbiamo “una certa età” – nell’attesa più o meno conscia di una catastrofe imminente, la nostra. Ed è una preoccupazione che estenderemo volentieri agli altri. In questo atteggiamento di cautela senile, che a noi sembra così saggio e che ai giovani apparirà invece così indisponente, si spiega una parte delle molte critiche che l’adozione dei monopattini ha scatenato sui mezzi di informazione. Gli opinionisti sono spesso persone di una certa età come me, adattissime a ricoprire con il velo delle proprie paure un oggetto verticale come un monopattino. Quelle medesime persone guarderanno con maggiore condiscendenza e minore attenzione le nuove biciclette che ci aiutano a pedalare meglio. Sembrano biciclette del resto, gli somigliano in tutto e per tutto, anche se, di fatto, non lo sono più.
Osservo una scena teatrale nella rotonda al centro di questa cittadina di mare. Un signore anziano, ben oltre la certa età, in bermuda, infradito e maglietta giovanile, apre gli sportelli posteriori della sua Tesla. La piccola cerimonia elettrica attira gli sguardi di noi passanti. Gli sportelli dell’auto si aprono verso l’alto, come ali di gabbiano, con un movimento simmetrico e armonioso. A quel punto l’uomo, mentre noi tutti lo stiamo osservando, estrae dal sedile posteriore un monopattino ripiegato, lo estende a occupare il proprio spazio e, mentre gli sportelli dell’auto ancora si stanno richiudendo, si allontana a bordo del piccolo velocipede.
È una scena piena di fascinazione tecnologica. Io che amo i particolari inutili, mentre torno verso casa, mi domando cosa ci faccia una Tesla parcheggiata in piena zona pedonale. Forse – penso – le auto elettriche, come ogni mezzo di trasporto analogo, godono di una sorta di extraterritorialità: posseggono, per ora, la magia necessaria per accedere ovunque.
Il silenzio
Un “oggetto” rilevante che accomuna molte delle tecnologie più recenti che usiamo per spostarci è il silenzio. La mia vicina di casa, una signora molto anziana che cammina con qualche difficoltà ma che veste elegantemente, ha un’intensa vita sociale e indossa una splendida visiera protettiva mentre taglia da sola l’erba del giardino, guida ogni giorno una grande Toyota ibrida bianca. L’auto entra ed esce dal giardino qui di fronte nel più assoluto silenzio. Da qualche mese la osservo partire o parcheggiare, sempre avvolta nel medesimo silenzio. E ogni volta lo spettacolo di quell’assenza di rumori mi commuove, come potrebbe accadere solo a uno come me, dopo decenni di orribili rumori di motori a scoppio.
Tutta la vita, con questo orribile rumore
su e giù o nel mezzo delle scale
le spalle contro quella porta.
Tutta la vita, a far suonare un pianoforte
lasciandoci dentro anche le dita
su e giù o nel mezzo a una tastiera
siamo sicuri che era musica.
Fanno silenzio i monopattini e le bici a pedalata assistita, non si sentono granché nemmeno le auto elettriche, giusto un fischio intenzionale, e questa – dovessi dire – mi pare una conquista tecnologica molto poco sottolineata. Ci farà comodo il silenzio: per leggere e pensare, per sussurrare alle persone care, per osservare i piccoli e grandi suoni del mondo, che comunque esistono e comunque parlano a noi. Per uscire dall’orribile rumore – come direbbe Lucio Dalla – e far suonare un pianoforte.
Le tecnologie anticicliche
Siamo diffidenti verso i monopattini anche per un’altra ragione: perché in un paese di vecchi sono una tecnologia anticiclica. Come tali spostano il mondo da dove potrebbe essere a dove effettivamente è. Parlano insomma di noi, e ci definiscono.
In un paese di anziani il monopattino e le sue dinamiche di adozione avranno l’impertinenza di uno schiaffo. È un oggetto che ha il potere di separare la popolazione in modo netto tra chi può e chi non può, nonostante il mio anziano amico con la Tesla e quelli come lui, ammirevolmente risoluti a non cedere il passo.
Lo spazio verticale non può essere di tutti e una tecnologia che per ragioni fisiche non può essere di tutti sarà per forza di cose vituperata e ridicolizzata dai non aventi diritto. E questo accadrà – va detto – con qualche comprensibile ragione.
Eppure noi tutti, anche noi di una certa età, saremmo ben disposti ad adattarci, almeno finché ce ne resteranno le energie. Anche lo smartphone, in fondo, è stato una tecnologia anticiclica: nonostante questo ha saputo superare molti dei nostri ostacoli. Tuttavia lo spazio verticale dei monopattini impone limitazioni ben più stringenti di quelle di uno schermo molto piccolo nel quale è difficile leggere e sul quale, quando si tocca per sbaglio qualcosa, tutto si ribalta.
Guido Ceronetti, anni fa, dei cellulari in mano agli anziani diceva:
L’esperienza che ne ho è recentissima, l’apparecchio che ho comprato, con l’aiuto di un amico, è dei più semplici, i giovani lo disprezzerebbero, e devo dire che un simile labirinto non avrei potuto, standone fuori, immaginarlo. Quando, manovrando o più spesso inaspettatamente, leggo ‘spegni’ mi sento come Jean Valjean che trova finalmente l’uscita dopo la sua famosa traversata di Parigi nell’umbra mortis delle fogne.
Anche gli smartphone, come i monopattini, oltre una certa età, si manovrano.
Negli smartphone, per non finire trascinati nella Parigi delle fogne, avrà importanza capitale l’occhio allenato e la precisione del polpastrello; sui monopattini dominerà la capacità di equilibrio, i riflessi, l’opporsi alla crudele forza di gravità. Basterà osservare come manovrano i monopattini i più giovani rispetto a quelli di una certa età per rendersi conto di come simili caratteristiche siano importanti.
I più giovani navigano, evitano le buche e l’asfalto sollevato dalle radici degli alberi disegnando ampie traiettorie. Le parentele con altre tecnologie analoghe risulteranno evidentissime: il monopattino è un surf senza onde, uno skateboard a spinta autonoma, uno snowboard senza neve. Stesse movenze, medesimo senso di libertà e improvvisazione, un mercoledì da leoni giunto senza sforzo fino a noi.
Tutti gli altri, meno giovani, viaggeranno sui loro monopattini in una traiettoria lineare, circospetti, soddisfatti, ma con un senso di lieve ansia nello sguardo. Il prezzo da pagare, oltre una certa età, alle tecnologie anticicliche.
Per tutte queste ragioni, per via dello spazio verticale, per il discrimine anagrafico che diventa contrapposizione tra generazioni, per il loro sollevare, come molte altre tecnologie elettriche, il tema del silenzio, i monopattini sono oggi oggetti spartiacque. Abitano uno spazio limitato, sollevano continui dubbi sulla loro sicurezza, impugnano l’anagrafe di ciascuno di noi invitando la società delle persone a schierarsi. Piccoli oggetti rivoluzionari che vivranno il tempo di un’estate o resteranno per sempre.
Nel frattempo, qualsiasi cosa accada, da questo terrazzo di una casa che sto per lasciare, mi sembra che l’unica cosa certa sia che, almeno per un po’ di tempo, queste macchine sottili dotate di ruote piccolissime, continueranno a dire cose di noi.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it